“Nella maggior parte dei film di guerra con i quali sono cresciuto, c’erano i buoni ed i cattivi” sottolinea Eastwood. “Ma nella vita non è così e la guerra non è così. In questi film non si tratta di vincere o di perdere. Si tratta di capire gli effetti che la guerra produce sugli esseri umani e su quelli che perdono la vita molto precocemente”.

In un paese come il nostro dove il pacifismo, l’essere contro la guerra è dato quasi per scontato – in tutti i più recenti sondaggi gli italiani si dichiarano contrari ad ogni tipo di intervento armato dei nostri militari – forse tali parole non suscitano particolare sconcerto. Ma negli Stati Uniti devono risultare un canto fuori dal coro, per lo meno alle orecchie di chi sta al comando. E non ci vuole poi molto a capire che Flags of Our Fathers, pur non toccando direttamente le vicende attuali, ha un risvolto sul conflitto irakeno, anche  perché suscita pensieri in tal senso. Non ci vuole molto a collegare l’uso ideologico e propagandistico che il governo degli Stati Uniti fece della famosa fotografia dell’innalzamento della bandiera su Iwo Jima, scattata dal fotografo della Associated Press Joe Rosenthal, con quanto le immagini diffuse dai canali televisivi rivelano e nascondono oggi. Tu ora, lettore avvertito, mi vorrai dire che io e Clint abbiamo scoperto “l’acqua calda”, che da quando il mondo è mondo i governi manipolano l’opinione pubblica per fini politici. In effetti non hai tutti i torti. C’è però qualcosa in più nell’ultimo film di Eastwood, scritto da Paul Higgis (Million Dollar Baby e Crash) e Bill Broyles jr (Cast Away, Jarhead), e ispirato dal romanzo di James Bradley e Ron Powers. È infatti prevista una seconda parte, Letters of Iwo Jima, pronta all’inizio del 2007, in cui è esposto il punto di vista giapponese sull’evento bellico narrato per ora solo dal fronte americano. Insomma la Storia ha più attori in campo, non ci sono solo i vincitori, e al di là delle parti, delle nazioni, degli interessi che si scontrano, ci sono i singoli e su di loro bisogna misurare gli “effetti” della guerra. In questo modo il mito dell’eroe, con tutte le rappresentazioni che se ne danno, dai film ai monumenti funebri, perde l’aura di intangibilità e splendore (in queste caratteristiche simile alle star del grande schermo), e torna fra noi, al nostro comune sentire, con tutte le fragilità umane.

Lo sbarco su Iwo Jima ebbe inizio il 19 febbraio 1945 e durante la sanguinosa battaglia, durata poco più di un mese, morirono 6821 americani e sopravvissero solo 1083 soldati giapponesi. Conquistare quell’isola era cruciale per vincere la guerra del Pacifico. Vi erano dislocati 22mila giapponesi, era la stazione di pre-allarme per la terraferma e consentiva alla difese antiaeree nipponiche di colpire facilmente i bombardieri americani. La narrazione si sviluppa su tre piani temporali. Il presente con l’indagine di Bradley che vuole ricostruire cosa accadde realmente sul monte Suribachi – dove Rosenthal scattò la foto (quella che si vede nei manifesti del film che in realtà è il secondo scatto) –  e capire chi erano quegli uomini ritratti. Il passato con la battaglia, girata in modo asciutto, colori desaturati, con uno stile aspro, quasi grafico (ricorda Samuel Fuller). E poi la tournée dei tre soldati sopravvissuti al gruppo immortalato mentre alzano la bandiera a stella e strisce su un tubo dell’acqua lì trovato. La celebrità di John Bradley (Ryan Phillippe), Ira Hayes (Adam Beach) e Rene Gagnon (Jesse Bradford) con il sentimento di speranza, vittoria ed eroismo che la foto suscita è utilizzato per promuovere l’acquisto di obbligazioni di Stato, così da continuare a finanziare la guerra. Eastwood opera con intelligenza una distinzione dei piani, dando così forma ad un film in cui la visione è ancora una possibilità di conoscenza, in cui il vero e il falso non sono sovrapponibili e indistinguibili. Insomma non ci consegna inermi all’illusione di realtà che il cinema produce, e scarta l’ipotesi di un raccontare affidato unicamente all’immaginario collettivo, col rischio di essere autoreferenziale e infine chiuso in un mondo di completa fiction. Dalle spiagge dell’isola giapponese cancella ogni tratto di epica, lascia respirare l’orrore, avvicina lo spettatore all’incubo della morte improvvisa che arriva da un nemico invisibile. Non solo. Non è solo intelligenza ma anche cuore. Nei volti dei giovani soldati in battaglia è ritratto un tempo che non verrà mai più: la giovinezza di chi non avrà un futuro. Si pensi allo struggente momento dell’attesa prima dello scontro, composto di gesti e parole quasi insignificanti, di uno stile elegante e necessario, di una voce suadente alla radio che ricorda che a casa forse hanno una donna ad aspettarli.

C’è inoltre un altro aspetto che tocca Flags of Our Fathers. Col personaggio di Ira Hayes (un nativo americano al quale  Johnny Cash e Bobby Dylan hanno dedicato una canzone) ci viene mostrato un paradosso: partecipare ad un evento eccezionale (la guerra), e al tempo stesso non essere in grado di raccontarlo, non essere capaci di farne partecipi altre persone, di modo che il peso di quanto visto e subito diventi razionale e sopportabile: narrabile tanto da darne un senso. Ira Hayes ha questa difficoltà in modo palese, i suoi compagni riescono a mettere da parte l’esperienza vissuta, assumono un ruolo sociale accettato, pur se proiettati in un orizzonte leggendario. Ira no, è un “pellerossa”. Walter Benjamin, a proposito della Grande guerra, scrisse di “caduta delle azioni dell’esperienza”. I reduci tornavano ammutoliti, impoveriti nel loro immaginario, incapaci di trasmettere alcunché. Il motivo era semplice: la guerra di posizione nelle trincee, li riduceva in fragili corpi in balia di fatti assolutamente da loro non controllabili, li trasformava in spettatori passivi dell’orrore. La generazione del primo conflitto mondiale andò al fronte con la convinzione di riscattare l’inanità della routine borghese con la guerra, intesa come massima intensificazione vitale. Non andò così. Ira Hayes è anche lui vittima di questa impossibilità di essere testimone del “reale”, di poter raccontare qualcosa di cui si è fatto esperienza, e che ha un fondamento nel mondo là fuori.

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