In occasione della manifestazione Vittorio De Seta – Diari di un Maestro di cinema pubblichiamo l’intervista inedita rilasciata a Nicola Cordone il 16 novembre del 2005 per la sua tesi di laurea Sguardi d’autore 1945-1960. Documentari etnografico-antropologici italiani tra dopoguerra e boom economico.

Lei ha documentato con sguardo autoriale e con la partecipazione appassionata di un antropologo, i modi, le forme e le tradizioni culturali della civiltà contadina del Sud, agli inizi della grande trasformazione sociale ed economica del nostro paese. Nonostante la completezza e la capillarità delle sue indagini, c’era qualche altra realtà culturale o ambientale che avrebbe voluto interpretare poeticamente e condensare in un altro documentario?

Beh, avrei voluto farne altri: ad esempio uno sulle saline, oppure uno sui modicani: durante l’estate alcuni di loro diventavano spigolatori e da Ragusa arrivavano fino a Palermo, sembravano degli zingari, trebbiavano il grano e lo spedivano a casa per farsi le provviste. Poi è tutto scomparso. I miei documentari hanno registrato la vita contadina come poteva essere anche in tutto l’Appennino, la vita dei paesi, il lavoro delle donne.

Nel 1959 girai I dimenticati e mi ricordo che già la gente cominciava ad emigrare da Alessandria del Carretto. E’ avvenuto qualcosa di cui, ancora oggi, non ci si rende bene conto, ma io credo che sia “il problema” e non vorrei sembrare retorico, ma mi sembra che quando scoppiano le periferie parigine o quando i kamikaze si fanno saltare in aria questo problema torna prepotentemente in superficie. L’ingenuità del progresso ha pensato che sarebbe passato tutto liscio, si pensava che lo sviluppo potesse portare solo benefici, che non ci fosse un risvolto: invece il risvolto c’è stato e tremendo, perché con estrema disinvoltura si è liquidata la cultura contadina, con pochissima sensibilità, come qualcosa ormai di superfluo e inutile, invece non era vero.

A suo giudizio quali valori umani e culturali sono andati perduti in seguito a questa repentina scomparsa della cultura particolaristica del Sud d’Italia?

Sono scomparsi i parametri tradizionali della cultura dell’uomo da un milione di anni: perché era un vivere insieme in villaggi di cinquecento persone; tanto è vero che l’uomo memorizza cinquecento fisionomie e cinquecento nomi nel suo cervello, non di più. Lavorare insieme, aiutarsi reciprocamente e produrre cultura, perché a quell’epoca cantavano tutti e se c’era qualcuno che cantava un po’ meglio, nessuno gli chiedeva l’autografo. In un ambito poverissimo in cui tutto veniva fatto con le mani, paradossalmente, ogni oggetto era decorato: il vasellame, le selle, i carretti siciliani, le chiese, poteva sembrare uno spreco. E i canti, i dialetti … Insomma tutti i legami con il territorio, con la lingua, con il costume. Anche in Sicilia si distinguevano gli abitanti di un villaggio da quelli di un altro dal modo di vestire e dal modo di parlare. Tutto questo è stato cancellato, praticamente c’è stato un genocidio culturale, non ricordo chi l’abbia detto.

Lo stesso Pasolini parlava in questi termini…

Sì, Pasolini: un genocidio culturale di cui non si parla mai. Secondo me oggi il boomerang sta tornando indietro, perchè non si può pensare che arrivare a Parigi in un’ora o avere un’auto che corra a duecento km orari significhi sopperire a tutti i nostri scompensi, non è vero. Forse soltanto Pasolini ne ha parlato, lui però condivideva il mito messianico-marxista della redenzione attraverso il proletariato, il suo era quello romano e forse questo era in un certo senso un limite. Era un po’ il mito ebraico dell’araba fenice: tutto doveva essere distrutto e dalle ceneri risorgere, oppure l’intervento del Messia avrebbe rinnovato il mondo. Per il marxismo questo messia è il proletariato. Io credo che ci sia una grande nostalgia del passato, e i giovani vedendo i miei documentari si rappresentano la vita com’era nel passato, vita che per certi versi era terribile: moriva un bambino su tre, non c’erano tutti i benefici che abbiamo oggi, però tutti avvertiamo nostalgia per quello che eravamo una volta. Il nostro cervello era strutturato in un certo modo, poi di colpo tutto è cambiato. C’era un mondo, c’era una cultura e non le è succeduto niente.

Come giudica, complessivamente, la produzione documentaristica italiana antecedente il secondo conflitto mondiale?

Prima del conflitto il documentario non esisteva, c’erano i cinegiornali. Subito dopo la guerra c’è stata una fioritura di documentari in bianco e nero con lo speaker: si può dire che sia stato io a rivoluzionare un po’ le cose, anche se non ho avuto seguito; però ho rotto certi schemi, perchè tutti concentravano la loro attenzione sulle periferie cittadine: N.U. di Antonioni, Ombrellai di Maselli, S di Pontecorvo, La stazione di Zurlini sono tutti documentari in bianco e nero con una bella fotografia e con lo speaker che era l’ossatura portante del film. La maggior parte dei cortometraggi dell’epoca prestava poca attenzione al suono: usavano musiche di repertorio, classiche. Forse l’unico documentario veramente interessante del periodo che precede la guerra è stato Il pianto delle zitelle di Pozzi Bellini.

Quanto hanno influito le ricerche di De Martino sulla realizzazione dei suoi documentari?

Le sue ricerche non mi hanno influenzato. Ho conosciuto Carpitella perché registrava dei canti insieme a Lomax, un americano che aveva fatto una bellissima raccolta, ci siamo incontrati a Messina e ci siamo scambiati delle registrazioni. Però poi non ho avuto niente a che fare con “i demartiniani”, direi quasi per fortuna, perché saranno bellissimi, ma sono documentari per gli addetti ai lavori, cioè non fanno spettacolo, sono molto scientifici.

Quali sono state le motivazioni che l’hanno indotta ad accostarsi proprio al genere documentario, agli inizi della sua carriera?

Ho provato anche a fare l’aiuto. Del resto quasi tutti cominciavano col documentario: Maselli, Zurlini, Taviani, Visconti.

Il documentario è stato una sorta di “trampolino di lancio” per approdare al lungometraggio?

Il passaggio era obbligato, perché non si campava facendo documentari. I soldi circolavano, ma non andavano agli autori, andavano ai produttori-speculatori: magari riscuotevano venticinque milioni per un documentario e ne spendevano uno per produrre il successivo.

A proposito del suo secondo documentario ambientato in Sicilia, Lu tempu di li pisci spata, è indubbio che tutto l’apparato sonoro ricopra un ruolo strutturale determinante, come è nata l’idea di montare le immagini sul ritmo della vogata?

Io ho registrato il sonoro dopo le riprese. Lu tempu di li pisci spata è tutto sul ritmo della vogata, è a tempo, non è “sinc” col quarzo, però è un fac-simile anche più espressivo, perché io registravo tutto e se c’erano delle belle voci in lontananza ce le mettevo, non c’era il culto del sinc che hanno adesso i fonici. Il primo, Pasqua in Sicilia, è banale perché c’e lo speaker: a partire dal Pesce Spada sono passato al 35mm, al colore e soprattutto all’ab
olizione dello stesso speaker, la cui eliminazione comportava la messa in primo piano del suono. Influenzarono le mie scelte stilistiche l’Aleksandr Nevskij di Ejzenstejn e L’uomo di Aran di Flaherty che era inizialmente muto; ma soprattutto mi colpì il capolavoro del maestro sovietico: c’era un sodalizio perfetto tra immagine e suono, musiche scritte apposta e scene montate sulla musica.

Eccezion fatta del primo, tutti i suoi cortometraggi sono a colori. Perchè per il suo primo lungometraggio a soggetto, Banditi ad Orgosolo, ha preferito utilizzare il bianco e nero? Più in generale, predilige il bianco e nero o il colore?

In quel caso si trattò, di una accortezza tecnica: poiché abbiamo girato delle scene in notturna, nel paese, non potevo usare il colore, per la scarsa illuminazione. Io comunque ho molta nostalgia del bianco e nero. Nel ’63 Fellini girò Otto e mezzo in bianco e nero: già allora c’era una sorta di resistenza da parte di alcuni autori. Anche Un uomo a metà era in bianco e nero, col colore sarebbe stato difficilissimo da realizzare. Il bianco e nero arrivava a 200 asa, il colore solo a 50: la pellicola in bianco e nero era quattro volte più sensibile, e noi eravamo pochissimi a illuminare le strade di Orgosolo; con il colore non ce l’avremmo fatta, e comunque i contrasti luministici del film erano molto belli, non riesco ad immaginare Banditi ad Orgosolo a colori.

Oltre a quelle economiche, ci furono altre ragioni che la spinsero a cimentarsi nel lungometraggio a soggetto, abbandonando, provvisoriamente, il documentario?

Non c’era soddisfazione: la legge prescriveva che i documentari venissero abbinati ai film a soggetto, ricavando il 5% dell’incasso lordo del film. Se un film otteneva cinquecento milioni, il documentario da esso preceduto, ne guadagnava venticinque: erano soldi, ma mediamente il budget di un documentario ammontava a circa un milione. C’era un’altissima speculazione. Nello stesso tempo, i documentari erano un po’ noiosi e il pubblico non era stato educato: erano lavori che restavano nel cassetto o passavano nei circuiti minori, ma nella maggior parte dei casi venivano presto dimenticati.

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2 commenti su “Vittorio De Seta, intervista inedita ad un maestro di cinema

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