Il titolo è sarcastico, perché gli anni descritti dal film sono tutt’altro che facili, almeno per il puro protagonista della pellicola. Un Nino Taranto nel ruolo (semi)serio di un virtuoso insegnante scolastico, affogato da come andava l’Italia di un immediato secondo dopoguerra assoggettato al dominio della piccola e della grande corruzione. Un Nino Taranto che per questo film ottenne il Nastro d’argento nel 1954. Subito importante ricordare che Anni facili (anche soggetto e sceneggiatura del film furono premiati col Nastro d’Argento) segna il secondo capitolo di un rapporto fecondissimo tra il regista romano Luigi Zampa e lo scrittore siciliano Vitaliano Brancati: il secondo mattone di una trilogia amaramente umoristica che va da Anni difficili (tratto dalla novella Il vecchio con gli stivali, scritta proprio da Brancati nel 1944) ad Anni facili (1953), appunto, fino a L’arte di arrangiarsi (1955), elaborati dalla grande penna nata a Pachino nel 1907 proprio per l’importante regista italiano Luigi Zampa. Anni Difficili diede inizio ad un filone satirico politico osteggiato dalla censura e segnò la nascita di un rapporto tra Brancati e il cinema che, al di là dell’importante rapporto dello scrittore meridionale con Zampa, è stato davvero molto intenso: nel 1951 Brancati ha partecipato alla sceneggiatura di Guardie e Ladri (diretto dalla Coppia Steno/Monicelli) e di Signori in carrozza, diretto anche quest’ultimo da Luigi Zampa. Nel 1952, poi, il romanziere isolano ha collaborato alla sceneggiatura del film Altri tempi (pellicola ad episodi “lanciati” da Aldo Fabrizi e diretti da Alessandro Blasetti), e in seguito ha “scritto immagini” per il grande maestro Roberto Rossellini. Due volte, la prima con Dov’è la libertà?, del 1952, e la seconda con Viaggio in Italia, del 1954. E come dimenticare il romanzo di Brancati da cui è tratto il film omonimo Il bell’Antonio, del regista Mauro Bolognini? Non si può, anche se il romanzo era significativamente ambientato durante gli anni del fascismo, e il film nella contempoeraneità dei suoi giorni, i primi anni ’60. E per essere precisi ci sta pure il film del 1973 Paolo il caldo, di Marco Vicario, tratto dal romanzo omonimo di Vitaliano Brancati.

Ma torniamo ad Anni facili, che inizia in una Sicilia dove il solito sole accecante brucia la bianca pietra calda degli edifici. C’è un borgo paesone, affollato da fauna rumorosa e caratteristica, in veloce adattamento al nuovo offerto dal dopoguerra, senza che poi le cose siano cambiate di molto rispetto al passato, visto che i padroni di ieri sono ancora al loro posto. E’ un paese microcosmo di un altro più grande che si chiama Italia, e che trova a Roma la capitale di un mondo antico e indegno di concepire i rapporti politici ed economici.

Con Anni difficili iniziava a prendere forma una pungente satira contro il ventennio fascista, che prosegue con Anni facili non solo perchè Brancati e Zampa tengono fede agli stessi toni narrativi di qualche anno prima, o perchè il secondo film sembri quasi l’ideale prosecuzione del precedente, ma anche e soprattutto perchè gli autori immettono l’antifascismo nel dna del piccolo professor De Francesco, minuto nel fisico ma nobile nell’animo. Questi è un onesto, squattrinato e retto insegnante in una scuola media siciliana, ed è incaricato dalla sceneggiatura di illuminare i contorni e la sostanza di un pessimo bel paese del dopoguerra. Questo tranquillo insegnante cerca soltanto di fare bene il suo mestiere, anche se già nel paesino siciliano si trova incastrato/strozzato dagli interessi dei piccoli potenti locali. Come quelli del Barone La Prua, per esempio, ex podestà del luogo, ed ora, come se niente fosse accaduto, aspirante sindaco locale. Ignorante, arrivista, furbo ed opportunista, il signorotto deve preparare il discorso per la sua candidatura, ma nel rivolgersi al candido docente di provincia, non si rende conto che le parole oneste da questo scritte per il candidato, offrono troppo facilmente il fianco alle scaltre reazioni politiche degli avversari, di qualsiasi colore essi siano, sempre animali da potere assolutamente insensibili ad ogni forma di rapporto con gli elettori, che non sia quella fondamentale del pre-voto. Verrà punito per quanto fatto, il povero De Francesco, per i suoi errori in buona fede, ma ancora non sa che sua moglie, nascostamente da lui, ha chiesto ed ottenuto il trasferimento del marito (e di tutta la famiglia) a Roma. L’aiuto è arrivato dal solito santo in paradiso, anzi in parlamento, che nella fattispecie è il sottosegretario Rapisarda. Un “sua eccellenza” di quelli seri, appassionati e competenti; amico di vecchia data proprio del povero De Francesco. Già, perchè Rapisarda, durante il famoso ventennio di dittatura, era stato al confino proprio in quella piccola cittadina siciliana, e lì aveva stretto una schietta e sincera amicizia con l’onesto e minuto professorino, poichè antifascisti convinti entrambi. Il fatto, però, è che mai De Francesco avrebbe voluto scomodare l’amico rispettatissimo, sia per una questione di principio sia perchè quel poveraccio di professore non ha nessuna voglia di avventurarsi in una città “pericolosa” come Roma. Non c’è che dire, è davvero un brutto colpo per lui: non sa come farà a campare, con sole quarantaseimila lire al mese, nella capitale d’Italia. E per giunta c’è un altro problema, che però diventa anche la soluzione al disagio economico del dipendente statale: quel trasformista del barone La Prua, da buon politico impastatore di affari e di interessi qual è, ha un suo progettino sottobanco. Ha appena sperimentato un prodotto farmaceutico che farebbe tornare al maschio italiano una gran voglia di fare all’amore, ed ha bisogno che da Roma qualcuno acceleri le pratiche per farlo entrare in commercio. Per ciò, avendo saputo dell’amicizia tra il De Francesco e l’On. Rapisarda, è subito pronto a reintegrare il professore nel giro delle sue amicizie utlili, e senza pensarci due volte, lo induce ad accettare uno stipendio di cinquantamila lire al mese, in cambio del disbrigo di tutte le pratiche nei ministeri; e pensando che il professore saprà sfruttare la sua amicizia con il potente Rapisarda. Non servono a molto i mille dubbi e le perplessità del professore: il barone ha già deciso, e poi ci sono quelle cinquantamila lire senza le quali sarebbe impossibile per lui vivere a Roma.

Inizia così l’odissea quotidiana del pover uomo dentro i vari ministeri della capitale, tra episodi di mal costume e di ignoranza, tra egoismi, soprusi, equivoci, in
comprensioni ed incomprensibilità note. Risulta piuttosto efficace la descrizione satirica dell’ambiente ministeriale italiano, con uscieri ed impiegati allo sportello capaci di sintetizzare in una gag un certo modo italiano di essere e di lavorare. E poi c’è una gag straordinaria costruita dalla coppia Mario Riva e Riccardo Billi, nei panni il primo di un usciere ministeriale, ed il secondo di un normale cittadino italiano: un paio di minuti straordinari, da tenere sempre a mente ogni volta che si deve parlare di questa grande coppia comica televisivo cinematografica.

In poco tempo l’onesto De Francesco entra in contatto con un ambiente a lui sconosciuto, ma, pur impegnandosi al massimo, non riesce a concludere molto. Intanto la sua famiglia vive a Roma senza entrare in contatto vero con la città, visto che nella capitale abitavano già parenti e paesani siciliani, e quindi tutta la vita sociale del nucleo si svolge in luoghi privati e domiciliari. I siciliani creano un pezzettino di provincia sicula in casa, e la stessa figlia del professore decide di sposarsi con un ragazzo del suo paese, il quale, prima che lei partisse per Roma, le scriveva almeno tre lettere al giorno.

Nel frattempo, il barone La prua si stufa dell’impotenza del professore, e piomba lui stesso a Roma, per mostrargli come si fa ad andare avanti nella vita e come si portano a casa accordi, fatti ed interessi. La Prua ricorre alla solidarietà di vecchi camerati che vivono dentro un castello come se il fascismo non fosse mai caduto, e qui il regista crea un’altra situazione di valentissimo umorismo. Pian piano, il furbo La Prua, sborsando soldi (un milione al funzionario competente) ed addomesticando tutti i problemi, ottiene tutto ciò che desidera, ed allora non ci pensa due volte a licenziare il povero De Francesco. “Non è roba per te – gli fa capire in poche parole – tu sei troppo onesto e non ci sai fare in questo mondo”, e il povero De Francesco, nonostante il tanto impegno profuso, si ritrova senza le necessarie cinquantamilalire e con un matrimonio in casa tutto da pagare.

La situazione economica si complica, ed anche il film si fa più drammatico, malinconico ed a tratti persino angosciante. Gli onesti De Francesco non riescono a tirare avanti, mentre i La Prua scialano e guadagnano milioni. Ed è qui che il professore macchia la sua condotta irreprensibile con un gesto insano e disperato: assillato dai debiti, accetta il compenso offertogli per promuovere un candidato immeritevole. Colto da crisi improvvisa, egli si lascia indurre ad una grave scorrettezza, ed accetta a malincuore centomila lire. Il povero professore prova a fare come hanno fatto gli altri, per adeguarsi a questi tempi nuovi, a questi anni facili solo per chi è abituato a vivere senza principi morali. Ma “purtroppo”, lui i principi ce li ha, e non riesce a guadagnare illegalemente, non ne è capace e la sua colpa viene subito scoperta. De Francesco avrebbe alcune attenuanti ma preferisce non difendersi, ammettendo dalla prima all’ultima tutte le sue responsabilità morali. Per questo viene condannato a quattro anni di galera, mentre il funzionario corrotto che ha intascato un intero milione per una sola pratica verrà semplicemente trasferito.

Il film si conclude una scena significativa: alla stazione ci sono due treni affiancati entrambi in partenza. Nel primo, di terza classe, ammanettato e scortato come fosse un assassino, il professore, sta per iniziare i suoi quattro anni di carcere in un luogo dove può insegnare ai detenuti; nell’altro, ovviamente in prima classe, con tanto di moglie ben ingioiellata, c’è il funzionario che si trasferisce da Roma a Milano, perchè tutta la sua pena consiste in un trasferimento.

Anni facili contiene alcuni momenti di satira corrosiva, di causticità, di eredità neorealista e più di un passaggio di amaro pamphlet politico. Non mancano vignette umoristiche spassose, che se da un lato alleggeriscono lo spirito satirico e polemico dell’opera, dall’altra la condiscono di gusto, di divertimento e di saporita parodia, spostando (soprattutto nella prima parte) il baricentro del film verso una commedia spassosa con gag di grana piuttosto grossa. Questo fino a un certo punto, perchè poi cresce un realismo patetico che accumula materiale neorealista e lo spinge verso la spiaggia rosa che caratterizza il momento cinematografico italiano di quei primi anni ’50: il neorealismo rosa, per l’appunto. Ma Anni facili rimane per l’epoca un film coraggioso, importante e piacevole anche se piuttosto semplice nello schematismo dei personaggi e nella critica alla società.

Un paio di curiosità. Le musiche del film sono ancora una volta di Nino Rota, e Domenico Modugno interpreta il giovane commissario di polizia che interroga il professor De Franscesco in questura. L’agente era stato anni prima allievo dell’insegnante e, conoscendolo bene, capisce immediatamente il perchè di quel suo gesto insano. Spiegherà al professore le possibilità di uscire fuori da quella faccenda nel modo meno doloroso, ma il De Franscesco vorrà andare fino in fondo e preferirà pagare per intero il suo conto con la giustizia.

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