Come sei arrivato a filmare l’occupazione di Palazzo delle Aquile?

Il progetto di Palazzo delle Aquile é stato preceduto dalle riprese della campagna elettorale a Palermo: quello che m’interessava era filmare la politica. In realtà ho sempre girato completamente da solo, ma nel caso della campagna elettorale, data la complessità del soggetto, sapevo che non ce l’avrei mai fatta senza l’aiuto di altri, così ho coinvolto Alessia Porto ed Ilaria Sparatore. Mi sembrava, inoltre interessante fare questa nuova esperienza di lavoro. Oltre al nostro gruppo c’erano anche delle altre persone che filmavano la campagna elettorale; in totale eravamo sette e formavamo una specie di collettivo. Abbiamo girato per quattro mesi raccogliendo circa 300 ore di materiale; forse un giorno lo utilizzeremo, comunque sia, quest’esperienza ci è servita per imparare a lavorare insieme. Qualche mese dopo è iniziata l’occupazione e noi tre abbiamo deciso di seguirla. Il governo di Palermo è di centro destra, il sindaco della città in questo momento é sempre lo stesso che si vede nel film, cioè Diego Cammarata di Forza Italia. Si parla di dimissioni da qualche mese a questa parte ma, visto che Cammarata è stato eletto nel 2007, molto probabilmente resterà in carica fino alla fine del 2011.

Come ti sei organizzato per girare in Palazzo delle Aquile?

Come dicevo io sono molto solitario e odio il concetto di troupe, ho sempre girato da solo occupandomi personalmente anche del suono. Nel corso della campagna elettorale ognuno di noi aveva seguito vari personaggi e avevamo filmato in parallelo; durante l’occupazione di Palazzo delle Aquile il nostro problema é stato piuttosto quello di riuscire a seguire gli eventi ventiquatt’ore su ventiquattro. Ci siamo organizzati in veri e propri turni, filmando uno alla volta ad eccezione dei consigli comunali durante i quali abbiamo girato con due camere. In fin dei conti, però anche in quel tipo di situazione, due camere non sarebbero state veramente necessarie, anzi abbiamo finito per darci fastidio visto il rischio continuo di finire l’uno nell’inquadratura dell’altro. Siamo stati molto facilitati nelle riprese dal fatto che ognuno di noi aveva dei rapporti privilegiati con delle persone che conosceva già dal periodo della campagna elettorale. In fin dei conti i protagonisti delle due vicende erano gli stessi; mi riferisco sia ad alcuni dei consiglieri comunali – Ester, per esempio, aveva seguito Fabrizio Ferrandelli durante la campagna elettorale – che al “Gruppo dei Senza Casa” di Toni Pellicana e al “Comitato di Lotta per la Casa” che nel corso della campagna elettorale aveva fatto una sua contro-campagna ed era stato seguito da Alessia. Sono stati proprio questi due gruppi ad avvertirci dell’evento dell’occupazione.

É stato difficile ottenere le autorizzazioni per filmare?

Non ho mai avuto bisogno di un’autorizzazione né per i consigli comunali, perché sono considerati come degli eventi pubblici, né per il resto perché, di fatto, eravamo in uno spazio pubblico. Ovviamente abbiamo chiesto l’autorizzazione delle persone che abbiamo filmato in primo piano ma, visto che le riprese sono durate dei mesi, tutti ci conoscevano già bene e quindi non abbiamo avuto alcun problema.

Vista la straordinaria qualità delle riprese non ci s’immaginerebbe mai delle riprese fatte nell’urgenza; in tutto il film non c’è un’unica immagine mossa, instabile o sfocata…

Non volevo fare un film ‘sociale’ girato nell’urgenza, volevo che ci fosse qualcosa di plastico, di visivamente forte. Per me era molto importante cercare un vero rigore e della precisione, ho insistito molto su questo punto anche con le mie collaboratrici. Volevo che le riprese fossero il più pulite possibile, senza farsi prendere la mano dal soggetto trattato, per cercare di inquadrare lo spazio per quello che era. Considero essenziale il fatto di trovare la buona distanza; non bisognava essere né troppo vicini, né troppo lontani in rapporto ai personaggi filmati. Certe persone sarebbero dovute apparire anche nella loro debolezza rispetto allo spazio incombente del palazzo; bisognava insomma fare delle buone riprese per evitare di perdersi nella confusione totale.

Palazzo delle Aquile è girato in formato panoramico, un’opzione molto suggestiva ed alquanto insolita in un documentario, per quali motivi l’hai scelto?

La decisione di girare in formato panoramico è stata molto importante per noi: l’idea ci è venuta durante le riprese, ci siamo resi conto che questa scelta ci avrebbe permesso di cogliere meglio la dimensione dello spazio. Bisognava inoltre evitare che la molteplicità dei visi diventasse un caos indecifrabile: le inquadrature sono pensate un po’ come degli affreschi. Il formato orizzontale obbliga lo spettatore a muoversi con lo sguardo all’interno dell’immagine perché, comunque, ci sono varie cose da guardare e non si riesce a sintetizzare l’insieme con un colpo d’occhio. All’interno di questo formato panoramico le inquadrature in piano largo si alternano a dei primi piani di un’ammirevole bellezza formale come una scena nel Palazzo in cui la testa di un bimbo è ripresa accanto alla testa di un leone scolpita nel legno. Filmare all’interno di Palazzo delle Aquile é stato relativamente difficile all’inizio perché si andava un po’ a tentoni, dopo un paio di giorni però lo spazio non aveva, per così dire, più segreti per noi. A quel punto sapevamo dove sarebbero successe le cose; andando avanti nel film ci siamo sentiti sempre di più a nostro agio ed abbiamo potuto reagire di conseguenza.

Anche la scelta della gamma cromatica nel film è molto particolare…

Il palazzo incombe sui personaggi, proprio per questo, doveva esserci una relazione cromatica proporzionale. Ho cercato di rispettare i colori dell’ambiente, ho tolto la saturazione ed ho cercato di eliminare pure tutto ciò che era ‘rumore di fondo’, cioè degli altri colori, per mantenere esclusivamente quella gamma di rosso e di viola che era il tono dominante dello spazio. Finito il montaggio, che ho fatto con Ilaria Fraioli, ho passato più di un mese rilavorando su ogni singola inquadratura, ri-inquadrandola per restituirla il più perfettamente possibile e per renderla ancora più panoramica organizzando, in post-produzione, dei movimenti interni all’inquadratura originaria, spostando infine questo quadro virtuale all’interno del quadro reale in modo da poter avere un controllo maggiore anche sulle immagini che non avevo girato io. Era importante per me riuscire ad appropriarmi di tutte le immagini del film, per questo motivo ho messo nel montaggio una cura, direi, quasi maniacale.

Molte scene nel palazzo sono state girate di notte con pochissima luce, come avete risolto questo problema tecnico?

Abbiamo usato una telecamera che data ormai quattro anni fa; le telecamere di adesso sono nettamente migliori. Ancora una volta abbiamo ovviato a questi problemi in fase di montaggio cercando di gommare il ‘rumore di fondo’ del video e di omogeneizzare il grano dell’immagine proveniente di fatto da tre cineprese diverse. Non è stato semplice; se si guarda il film prima e dopo la color correction, nonostante il montaggio sia lo stesso, si ha l’impression
e di vedere due film diversi; è proprio per questa ragione che ci ho tenuto a firmare la color correction nei titoli di coda.

In quanto registi restate ‘invisibili’, non fate mai domande ed avete rinunciato ad ogni sorta di commento esplicativo. Perché?

Nel corso della campagna elettorale avevamo deciso di seguire semplicemente quanto succedeva. Durante questo periodo molti dei personaggi presenti ci invitavano a fare loro delle domande, ad intervistarli, desideravano vederci come degli interlocutori diretti, ben presto però hanno capito che non l’avremmo fatto e così siamo diventati, in un certo, senso ‘invisibili’. Quando in un luogo succedono tante cose importanti allo stesso tempo la telecamera finisce per diventare parte integrante di questo gioco. In questo contesto i veri interlocutori erano degli altri ed i personaggi filmati non avevano neanche il tempo di riflettere sulla presenza dell’obbiettivo. Nei momenti di calma c’era forse una maggiore consapevolezza del fatto che noi stessimo lì seguendo l’accadere ma nelle situazioni di scontro e di conflitto i nostri testimoni erano sollecitati da ben altre cose. La situazione è stata diversa quando ho dovuto girare all’esterno del Palazzo con gli altri consiglieri comunali perché per loro questa situazione costituiva un fatto nuovo ed eccezionale: da un lato non ero un giornalista e dall’altro loro sapevano che stavo già filmando da tempo un loro collega, Fabrizio Fernadelli. Hanno sopportato piuttosto male la mia presenza e ad un certo punto se ne sono andati via per poter parlare in privato fra di loro. I politici, (specialmente nel periodo dell’occupazione,) non si sono mai fatti vedere. Solo all’inizio c’è una consigliera che viene a parlare subito dopo il consiglio comunale, per il resto l’assenza è veramente assoluta. Nel momento in cui l’occupazione è iniziata i consiglieri sono partiti e non hanno più messo piede nel Palazzo; s’incontravano fuori per non dover vedere ed affrontare le persone che l’avevano occupato.

Quante ore avete filmato e come hai organizzato la scelta del materiale in fase di montaggio?

Abbiamo girato più di cento ore. La scelta del materiale l’abbiamo effettuata in primo luogo durante un periodo di pre-montaggio che è durato circa tre-quattro mesi ed in seguito durante il montaggio vero e proprio che è durato altri cinque mesi. La costruzione della struttura narrativa è stata piuttosto difficile soprattutto rispetto all’inizio del film perché bisognava trovare delle cose che spiegassero quanto stava succedendo. Il consiglio comunale l’abbiamo messo al principio proprio perché situava la storia e dava il contesto del luogo e del problema specifico. Per motivi narrativi abbiamo invertito alcune cose nella prima parte del fil

Nel montaggio siete riusciti a trovare un giusto equilibrio fra il punto di vista dei singoli individui e l’aspetto corale del soggetto, non dev’essere stato facile.

Dosare la distribuzione collettiva rispetto a quella individuale è stato un compito veramente arduo. La grande durata del film è dovuta proprio a questa complessità. Accorciare il film è stato molto difficile perché togliendo una scena improvvisamente dei personaggi scomparivano; ci siamo resi conto che era necessario seguire ogni personaggio per almeno tre-quattro scene in modo da preservare l’intelligibilità della vicenda.

Questo problema “strutturale” riflette di fatto il soggetto stesso del film, sei d’accordo?

Già dall’inizio di questo progetto i produttori mi avevano consigliato di eliminare dei personaggi, di sceglierne solo due o tre e di costruire tutto il racconto su di loro. Mi sono sempre rifiutato di farlo perché il soggetto del film era proprio il rapporto del singolo rispetto alla collettività. Non potevo saturare questa tematica cercando dei personaggi forti e seguendo solo loro secondo uno schema di narrazione tradizionale. Una volta il film terminato e montato sono riuscito a convincere parecchie persone, fra quelle che volevano spingermi verso una narrazione individuale, di avere fatto la scelta giusta.

Palazzo delle Aquile descrive un’attesa, un tempo che passa; come hai lavorato sul ritmo del film?

Bisognava in effetti rendere l’attesa e la spossatezza di stare lì per giorni e giorni rispettando però certi limiti temporali. Volendo, il film sarebbe potuto durare quattro o dieci ore. Siamo voluti restare dentro una durata che permettesse al film di essere mostrato in un contesto normale, d’altra parte però se ci fossimo limitati ad un’ora e mezza non saremmo mai riusciti a rendere palpabile il peso dell’attesa per tutte queste persone. In un modo o nell’altro Palazzo delle Aquile non potrà mai essere un’opera facile, di puro intrattenimento.

Come hai finanziato questo progetto e qual’è stato il suo budget?

L’unico vero sostegno finanziario l’ho avuto in Italia dall’Associazione Corso Salani che è stata creata il dicembre scorso. Abbiamo vinto il concorso bandito dall’associazione; il premio ci ha permesso di finire la post-produzione. In Francia non siamo riusciti a trovare nessun finanziamento; spero però che il Grand Prix du Réel possa esserci d’aiuto. Per quanto riguarda il budget, al di là del lavoro che ci abbiamo messo noi e che, a dire il vero, non è stato ancora pagato fino ad oggi, il film è costato circa 30.000 Euro in costi reali. Se noi fossimo stati pagati il budget si sarebbe elevato a circa 70.000 Euro; ad ogni modo è un film a basso costo.

Qual è stata la difficoltà maggiore che hai dovuto affrontare?

Per me la difficoltà maggiore è stata quella di riuscire a tenere dritta la barra di quello che volevo raccontare senza lasciarmi influenzare dai miei interlocutori e di trovare la giusta struttura del film. M’interessava mostrare quello che c’era di mai visto, di mai sperimentato in questo tipo di racconto; è stato come un viaggio senza certezze.

Qual’é l’intenzione di fondo che anima il tuo film?

Il mio desiderio più profondo era che alla fine si potesse cogliere il senso del film, anche nel significato morale del termine. Volevamo che Palazzo delle Aquile si presentasse come un qualcosa di organico all’interno del quale lo spettatore potesse seguire un suo percorso; agganciarsi, per esempio, ad un personaggio e poi ad un altro. Se il film fosse durato mezz’ora di meno queste scelte narrative avremmo già dovute farle noi a monte influenzando così molto di più la percezione della situazione descritta ed il giudizio portato su di essa. Abbiamo proposto del materiale visivo, umano, relazionale cercando di mantenere un senso quasi etnografico. Ogni scena é attraversata da tantissimi segni, da tantissime suggestioni diverse; era importante incrociare questi segni senza però impoverirne il contenuto. La nostra scommessa è stata quella di riuscire a mantenere le fila dell’insieme senza imporre agli spettatori, all’interno della costruzione narrativa, dei percorsi forzati.

Palazzo delle Aquile ha uno stile pacato e meditativo nonostante riprenda degli eventi molto forti; è un film di riflessione politica.

Volevo evitare ad ogni costo di cadere nel folcloristico, nella macchietta; noi italiani abbiamo il difetto di auto-rappresentarci in modo semplicistico riproducendo spesso dei luoghi comu
ni che si hanno all’estero su di noi. Per me era importante che questa storia potesse essere universale e che quel surplus di teatralità o di paradosso che comunque c’é perché è ambientata a Palermo potesse servire come una lente d’ingrandimento per mostrare meglio delle dinamiche umane, un po’ come avviene nel teatro di Emma Dante o in Cinico TV di Ciprì e Maresco. Questo materiale narrativo deve servire a mettere in atto una riflessione sulla politica, anche perché alla fine di questa storia io stesso non ero giunto a delle conclusioni, non ero in grado di dire chi fossero i ‘buoni’ e chi i ‘cattivi’, ero solo consapevole del fatto di trovarmi di fronte ad un qualcosa di molto complesso e contraddittorio.

La democrazia per te è un’utopia?

In un ambiente come il nostro la democrazia è un’utopia perché al centro di un discorso democratico non ci sono più dei cittadini liberi, ma c’è altro; in questo caso specifico ci sono delle famiglie, in altri casi ci sono dei gruppi d’interesse mentre la democrazia dovrebbe avere come sua pedina il cittadino stesso. L’idea di fare questo film è sorta dalla lettura di The human condition di Hanna Arend testo in cui viene analizzato cosa è rimasto della democrazia nella realtà contemporanea in seguito alla perdita del ‘cittadino’, cioè di questa figura attiva e passiva allo stesso tempo per cui chi fa politica non è né un lavoratore, né una figura sociale, ma qualcuno in primo luogo capace di ascoltare, di parlare e di agire in uno spazio pubblico. Se non c’è questo spazio pubblico non ci può essere democrazia; la democrazia non può essere fatta da persone che sono rinchiuse in uno spazio privato. Pur essendo un qualcosa che si deve salvaguardare, la sfera del privato è un aspetto necessario, ma limitato dell’essere umano. Secondo Hanna Arend l’essere umano è tale per l’azione che svolge nello spazio pubblico, cioè nello spazio politico. Io ero alla ricerca di questi concetti ed é per questo che sono partito a filmare la politica. Anche Primavera in Kurdistan (2006), il documentario che ho girato fra i guerriglieri kurdi si svolgeva interamente in uno spazio pubblico. Penso ormai di non essere più in grado di filmare delle situazioni e degli spazi privati, sono esclusivamente attratto da quello che la Arend definiva come lo spettacolo del mondo, cioè la messa in scena del sé in uno spazio pubblico per cui ognuno è spettacolo rispetto ad altri, cioè soggetto ma allo stesso tempo oggetto della visione altrui.

Qual’è il tuo prossimo progetto?

Sono andato in Egitto durante i primi giorni della rivolta sulla Piazza Tahrir e sono restato lì fino alla fine; in totale ci sono rimasto per tre settimane e adesso vorrei tornarci. Sono partito spontaneamente perché il Cairo è un posto che conosco molto bene; ci sono già stato decine di volte perché prima di occuparmi di cinema facevo l’egittologo. Quello che è successo sulla Piazza Tahrir è proprio il contrario di quanto era successo in Palazzo delle Aquile. La Piazza era quanto di più simile io abbia visto ad una polis; le persone non erano scese in piazza per rivendicare dei bisogni o degli interessi privati, ma erano dei cittadini che finalmente volevano parlare; la libertà non era per loro un qualcosa di prospettivo, ma qualcosa in fieri. Nel momento stesso in cui loro erano in piazza, quello che stavano rivendicando – cioè la libertà di parlare – l’avevano già. La gente sulla Piazza Tahrir stava godendo la democrazia nella coscienza che anche se fosse stata uccisa il giorno dopo quello che stava vivendo era un momento di libertà realmente vissuta per cui era animata da un’enorme ottimismo; Palazzo delle Aquile invece mostra un vero e proprio fallimento democratico.

Come sei passato dall’egittologia al cinema?

Il mondo accademico non mi convinceva più; mi sono reso conto che l’egittologia finiva per ridursi ad una specie di scienza antiquaria. In un primo tempo ho deviato per così dire dall’interno iniziando ad occuparmi di antropologia culturale. Quando ho cominciato a fare antropologia culturale ho capito ben presto di non parlare più lo stesso linguaggio dei miei colleghi e di essere già, in un certo senso, ormai fuori da quello che era stato il mio sogno d’infanzia, cioé l’archeologia. A quel punto mi sono detto perché chiudersi in un ambiente di studi visto che a me quello che interessa é raccontare delle storie. Così ho iniziato con la fotografia; avevo soprattutto voglia di raccontare la storia di persone che avevo conosciuto al Cairo anni ed anni fa.

Chi sono, fra i registi, i tuoi numi tutelari?

Per quanto riguarda il documentario Rithy Panth é per me certamente un maestro, mentre considero Wisemann di cui avevo seguito tempo fa un seminario un po’ troppo ‘clinico’ nel suo approccio. Nell’ambito della finzione il mio regista ‘culto’ é Maurice Pialat per la sua fiducia nella realtà al di fuori degli stereotipi. Pialat nasconde il suo essere un grande autore dietro la normalità di quello che filma, per lui é essenziale riuscire a “spalmarsi” su quello che sta raccontando cercando di rivelarlo, scomparendo in quanto autore-regista a suo profitto. E proprio secondo questa direttiva che faccio documentario; é come se io mi mostrassi ‘appiccicandomi’ quanto filmo.

Cosa ti auguri per il tuo futuro come cineasta?

Potere continuare a fare dei film come adesso, che già non é facile; il mio progetto seguente é un film che sto girando da tempo a Gaza. Ci sono andato già due volte, ci andrò una terza volta, sto seguendo una famiglia nel corso degli anni, é un film difficile. E poi ho fondato una casa di produzione a Parigi, Pico Films; la sfida é quella di cercare di produrre anche i film di altri e di essere il loro interlocutore.

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