“Siamo uno ma non siamo la stessa cosa…”, cantavano gli U2 in One, una delle loro più celebri ballad che all’inizio degli anni ’90, in pieno fermento post illusorio della grande bugia edonista degli anni ottanta, quando ancora la rabbia e il dolore di una generazione disorientata e frammentata venivano intercettati e accolti da un impeto collettivo (Seattle, i Nirvana), erigeva un monumento (Love is a temple, love is the higher law…) all’Amore sotto il cui altare ci si poteva ritrovare e riconoscere uguali e diversi.

Ora, partendo da questo presupposto, in quale epoca diremmo che è ambientato The Lobster, il curioso e disturbante nuovo oggetto filmico partorito (soggetto, sceneggiatura e regia) del greco Yorgos Lanthimos e presentato come il suo primo film in lingua inglese? Di fatto, lo è, nel senso che i protagonisti, tutte prestigiose star anglofone con un tocco francese (Lea Seydoux) e qualche vibrante presenza greca (Ariane Labed, Angeliki Papoulia), recitano in inglese ma, come per l’epoca e anche per l’ambientazione, è impossibile stabilirne o connotarne una cultura di appartenenza, un periodo storico di riferimento, un luogo geografico identificabile. Queste coordinate non ci vengono offerte e la sensazione, in fondo, è quella di sentirsi come quegli adolescenti a cavallo di due decenni (‘80/90) così traumaticamente spezzati: il primo che ci aveva convinto, a forza di spot pubblicitari e videoclip, a credere nell’armonia levigata e nelle superfici lisce e profumate della fabbrica delle saponette, sulla cima delle quale eravamo invitati a cercare il nostro re o la nostra regina, il secondo che ci lasciava, isolati e disillusi, a fare i conti con la nostra individualità, diffidenti verso qualsiasi ancora di salvagente o forma di consolazione.

Curiosamente, nel mondo senza tempo, senza luogo e senza identità di The Lobster questa crasi rivive nella duplice comunità, quella legale e quella clandestina, che mette in scena con un registro a suo volta doppio (artificioso e astratto dal punto di vista narrativo, realistico e minuzioso da quello estetico/formale): da una parte c’è la Società, il cui nucleo e cuore pulsante si identifica in un centro commerciale dove tutto viene  concepito e mercificato in funzione della coppia, e che ha messo al bando il concetto di singolo, obbligando chi rimane senza un compagno a raggiungere un elegante hotel sulla costa dove avrà 45 giorni di tempo per  trovare un partner tra gli altri scompagnati, salvo, al termine del tempo, venire mutato in un animale a sua scelta e lasciato libero nel bosco o nel mare circostanti.

Il protagonista ha le fattezze  mutate ed appesantite di Colin Farrell, quanto mai destrutturato nella sua immagine divistica, ridotto a uomo esposto nella sua fragilità e, un po’, anche pusillanimità, il cui atteggiamento ambivalente tra obbedienza e inquietudine, passività e aggressività, desiderio e istinto di conservazione (“La cosa peggiore è diventare un animale e farsi mangiare da un animale ancora più grosso”) offre un ulteriore spunto di riflessione su come si è trasformato il concetto di “maschile” nella società del post-post-post, nel crollo dei Grandi Ideali e dei Grandi Valori, che poi magari erano solo dei comodi slogan dove nascondersi come l’Amore  degli U2, impreparato a contattare le emozioni e le pulsioni, a guardare in faccia la natura nevrotica dei propri desideri.

Non a caso, come la Kapò dell’hotel/lager in cui sono detenuti  i single da rieducare,anche la sua controparte, il capo dei “solitari”, la comunità alternativa che si muove come un branco di animali selvaggi nel bosco braccati e cacciati dai residenti dell’albergo, è una donna, altrettanto determinata e spietata nel portare avanti il culto estremo di un’individualità che assume le stesse forme crudeli e grottesche del corrispondente assolutismo ( la mano nel tostapane per i single beccati a masturbarsi, bocche sfreggiate per i solitari che si baciano tra di loro).

Questa società immaginata o, meglio, rielaborata da Lanthimos non è dunque tanto inquietante perché vuole imporre l’egemonia di una cultura sulla coppia rispetto al riconoscimento dell’individualità all’interno della coppia stessa ( le “coppie” per essere riconosciute tali devono possedere identiche caratteristiche fisiche o comportamentali); quello che turba e lascia un segno, perché vi si riconosce un processo in itinere della nostra cultura occidentale, quella riconoscibile, di appartenza, in cui siamo coinvolti, è la laconica e desolante constatazione che l’incontro tra maschile e femminile, la possibilità di una contaminazione, di un’apertura, di una trasformazione, si stia riducendo, grottescamente, alla remissiva accettazione  di un artefatto  riconoscimento con l’Altro da sé, una falsa identificazione, oppure  all’altrettanto falsa convinzione che emanciparsi significa introiettare modelli speculari e inconciliabili (la donna “maschile”, l’uomo “femminile”).

Magari è stata solo una mia suggestione “generazionale”  riconoscere nello spaccato tra coppie e singoli   i segni di due decadi, anche se gli sdolcinati duetti  di canzoni pop sentimentali per far accoppiare i single mi sono sembrati così anni ottanta e la danza individuale dei solitari a ritmi dell’elettro/tecno mi ha ricordato delle scene che vedevo nelle discoteche degli anni novanta.

E , a proposito di clichè, lascia col fiato sospeso l’immagine finale di Rachel Weisz , così umana ed esposta nella sua femminilità, cieca di desiderio, seduta sola al tavolo di un bar per un momento interminabile che appare più che mai fuori dal tempo e dallo spazio, con in testa un pensiero: “Siamo uno ma non siamo la stessa cosa…”

Non escludo però che stia pensando anche a quello che cantava Annie Lennox : “I don’t wanna wait in vain for  your love…”

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