AHED’S KNEE di NADAV LAPID

L’urlo liberatorio di Nadav Lapid

Con Policemen, (Ha-shoter) il suo primo lungometraggio, presentato a Locarno nel 2011, Nadav Lapid si era subito imposto come una rivelazione per il rigore assoluto della sceneggiatura, la precisione spietata nella descrizione dei personaggi e la fredda determinazione del racconto. Policeman, film corale fatto di voci opposte e speculari metteva in scena il confronto-scontro fra due gruppi di combattenti: un’unità anti terrorista della polizia da un lato e un gruppuscolo di giovani terroristi dell’estrema sinistra dall’altro, manifestando l’implosione di una società, quella israeliana, al bordo dello sfacelo. Con le sue immagini controllate ed incisive, il ritmo incalzante del montaggio e una tensione crescente che annunciava ad ogni istante l’inevitabilità di un finale senza uscita, Nadav Lapid aveva creato un primo film tagliente come la lama di un coltello con un linguaggio nuovo, spregiudicato e uno sguardo spietato verso i mali del suo paese. Policemen era stato ricompensato con il Premio speciale della giuria di Locarno.Nel decennio seguente Nadav Lapid ha tracciato un suo cammino, esigente ed inconfondibile continuando ad esplorare le ferite aperte della società israeliana di oggi. Il rapporto del regista con lo stato di Israele è passionale, brutale, fatto di rabbia, di rancore, di un dolore infinito, è un rapporto segnato dalla profondità dolente di un legame non solo identitario ma quasi fisico. Il trauma personale è, in primo luogo, un trauma nazionale nei film di Nadav Lapid. Questo rapporto di amore e odio per il suo paese d’origine attraversa come un filo rosso tutta l’opera del regista che dal 2014 fino ad oggi segue il percorso di un’esplorazione a fondo autobiografico. I tre film seguenti Haganenet (2014), Synonimes (2019) e Ahed’s Knee presentato oggi in concorso al Festival di Cannes fanno parte di una trilogia cha ritraccia la vita del regista in tre tappe: Hagagenet era dedicato all’infanzia, Synonimes alla giovinezza e Ahed’s Knee al presente della maturità. Scritte con la cura e la ricchezza di vere e proprie opere letterarie, le sceneggiature di Nadav Lapid s’ispirano ed esplorano il tema del linguaggio;  il linguaggio poetico in Hahagenet, il cui protagonista – altre ego del regista da piccolo- è un bimbo con il dono innato della poesia e il linguaggio come lingua straniera in Synonimes in cui il giovane protagonista, trovatosi a Parigi- come Nadav Lapid stesso – impara il francese memorizzando pagine intere di un dizionario di sinonimi. Ahed’s Knee, costituisce in questo senso un’eccezione: la sceneggiatura è, da un punto di vista letterario e linguistico, particolarmente scabra rispetto a quella dei film precedenti. In Ahed’s Knee la parola è sostituita dall’urlo, dall’invettiva, dallo sfogo, espressione di un dolore che non può più essere mediato dalla parola. Ahed’s Knee è in questo senso forse il film più radicale di Nadav Lapid, un film fulmineo, bruto, manifestazione di un modo fisico e diretto di fare cinema. Si sente l’immediatezza e l’urgenza nella scrittura del film; Nadav Lapid stesso ha spiegato di avere scritto la sceneggiatura di getto in due settimane mentre la scrittura di Synonimes gli aveva preso diciotto mesi e quella di Haganenet quindici. Ahed’s Knee è un film a contrasto; più forte è il dolore, maggiore è la rabbia e il furore con cui viene espresso.Forse il film più personale ed intimo di Nadav Lapid, Ahed’s Knee si costruisce sul vuoto, sull’assenza, sul lutto e ne porta le tracce. Di primo acchito, il film si presenta come una denuncia senza mezzi termini, come un vero pamphlet contro lo stato d’Israele definito apertamente come un sistema totalitario, nazionalista e militarista che impone a tutti i suoi cittadini un modello di pensiero univoco e non tollera alcuna dissidenza, ma il discorso che il regista tesse in controluce è in realtà più intimo e complesso. Il film scritto due mesi dopo il decesso della madre di Nadav Lapid le è dedicato. Colpita da un cancro ai polmoni la figura della madre di Nadav Lapid –montatrice di tutti i suoi film- viene evocata lungo tutto il corso della pellicola. Il protagonista guarda il mondo attraverso i suoi occhi, filma e commenta a più riprese i paesaggi che lo circondano per mandarglieli e compartire con lei le sue esperienze. Le similitudini fra la biografia del regista e il suo doppio di finzione sono in Ahed’s Knee molto dirette. Il protagonista del film è infatti Y, un regista sulla quarantina impersonato da Avshalom Pollak, che sta lavorando su un progetto ispirato dalla storia della giovane attivista Palestinese Ahed Tamimi. Tamimi diventata celebre sui social per avere dato una sberla in pubblico ad un soldato israeliano, viene incarcerata mentre c’è chi sui sostiene che bisognerebbe darle una vera lezione sparandole in un ginocchio per renderla invalida a vita.Questo è l’inizio del film, il suo prologo. il modo furioso, inquieto e impetuoso con cui è filmato c’immergono nell’universo di un cineasta- quello vero- che rompe con estro i canoni liberando lo spazio della visione. Il montaggio è veloce, dei primissimi piani si avvicendano a dei movimenti convulsi della cinepresa che sembra perdere il suo equilibrio. Tutto ruota e tutto gira intorno a Y; nel suo cuore regna l’inquietudine, nella sua testa la confusione. Y sta perdendo ogni appiglio, ogni presa sulla realtà. L’immagine del film, frammentaria e instabile è l’espressione perfetta di questo stato mentale. Mentre le immagini, e il protagonista stesso, penano a trovare un po’ di stabilità, un invito inopinato nella remota valle del deserto di Arava per presentare il suo ultimo film, offre a Y la possibilità di sfuggire dal suo quotidiano. Come ad un ancora dii salvezza l’uomo si aggrappa a quest’opportunità, sale su un piccolo aereo traballante e viene catapultato nel bel mezzo di una distesa arida e sabbiosa dove lo attende Yalom, interpretata con grande finezza da Nur Fibak, una ragazza del luogo che ha fatto carriera nel ministero della cultura israeliano. Sorridente ed affabile Yalom accoglie lo scontroso Y con gentilezza e rispetto, gli spiega di essere stata all’origine dell’invito, e si mostra felice di accoglierlo nella piccola comunità locale. Molto aperta e sincera la ragazza gli racconta la sua storia e come ha potuto pian piano da bibliotecaria locale assurgere al rango di vicedirettrice nel gabinetto del ministro della cultura locale. La proiezione organizzata nel pomeriggio, sarà preceduta da un piccolo cocktail e seguita da una sessione di domande e risposte con il pubblico. Yalom ha mobilizzato tutta la sua famiglia che ha preparato i piatti per il buffet, e tutte le sue conoscenze al fine di riempire la sala di pubblico. Tutto sembra andare per il meglio senonché la ragazza chiede a Y di riempire e di firmare un documento ufficiale nel quale il regista dichiara sull’onore quali saranno i temi di discussione con in pubblico. La lunga mano del governo israeliano giunge fino nel remoto deserto di Arava per controllare ed imporre il suo punto di vista; la lista dei temi di discussione possibile, proposta nel documento, la dice lunga sull’imposizione di un punto di vista univoco. Tutti i soggetti devono mettere in avanti la gloria dello stato israeliano. La lista è di fatto un formulario di censura che non prevede, per esempio, che si possa parlare del conflitto israelo-palestinese o di sesso. Il regista, che non ha mai nascosto il suo atteggiamento critico di fronte al governo del paese, è preso alla sprovvista. L’esistenza di un tale formulario peraltro non è pura finzione, Nadav Lapid ha spiegato nel corso di un’intervista di essersi confrontato ad un documento di questo tipo nella sua vita reale.

Ahed’s Knee è costruito intorno al rapporto di attrazione –repulsione fra Y, l’alter-ego del regista e Yalom, il volto gentile, ma non per questo meno insidioso, di una rappresentante del potere statale. Il conflitto fra Y e Yalom è inevitabile, le tensioni si accumulano e i colpi di scena si susseguono. Nel quadro offerto da questa situazione Nadav Lapid ci offrirà una delle scene più apertamente e brutalmente critiche nei confronti dello stato israeliano in una sequenza in cui Y, sullo sfondo del deserto, urla in faccia a Yalom le sue quattro verità, con una foga e con una veemenza impressionante. I caratteri sono fatti di chiaro-scuri e Nadav Lapid riesce con grande abilità a cambiare più volte le carte in tavola: Y non e tanto limpido quanto sembra e Yalom e molto più umana e sensibile di quanto ci si sarebbe aspettati. La realtà è sempre complessa e contraddittoria. Ma il film non è solo questo: un soffio di follia e di autoderisione attraversa tutto il film offrendoci delle vere scene da antologia come quella interpretata da Yoram Honig, membro della Film commission israeliana nella vita, che impersona un abitante locale che fa da chauffeur al regista. La sequenza realista dei due uomini in macchina è seguita da un inserto sorprendente in cui vediamo Yoram Honig scatenarsi al ritmo di una canzone pop nel salotto di casa sua liberando tutta la forza sovversiva dell’immaginario.   Ahed’s Knee, scritto di getto e girato con un budget molto ristretto in soli diciotto giorni, è un film libero, un pugno nello stomaco, un viaggio psichedelico nel fondo del deserto e dell’anima torturata di un israeliano che deve fare i conti con un paese che onora e con uno stato che l’opprime. La trilogia autobiografica di Nadav Lapid si chude con la constatazione di uno scacco.

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