Ken LoachRedacted di Brian De Palma e It’s A Free World di Ken Loach vanno giù duri come macigni. In entrambi a essere in discussione non sono tanto categorie sistemiche come “potere” o “neo-liberismo”, bensì gli individui, in ultima analisi noi stessi, inchiodati ciascuno di fronte alle proprie responsabilità, tacitamente conniventi alla sopraffazione e ai meccanismi dello sfruttamento. Aprendo a caso il quotidiano di oggi (2 settembre) leggo che: il governo australiano sta costruendo una Guantanamo High Tech per immigrati su un isolotto in mezzo all’oceano, dove i detenuti saranno tagliati fuori dal mondo; ancora, in una città del nord Italia 140 persone, profughi di guerre e povertà,  sono state sgomberate da un ex-fabbrica per far posto a un centro commerciale; infine, in alcuni nostri comuni, guidati da civili amministrazioni di sinistra, si teorizza la “tolleranza zero” nei confronti dei pericolosi lavavetri che attentano le nostre rinfrancanti soste ai semafori, dei giovani writers che hanno la sfacciataggine di colorare le mura grigio-smog delle città, dei “senza fissa dimora” che ne abitano gli insalubri spazi interstiziali. Ma torniamo ai due film in concorso a Venezia.

De Palma presenta nella forma di un mockumentary, la ricostruzione di un fatto di cronaca nera ispirato a un episodio realmente accaduto: lo stupro di una ragazzina di 14 anni e l’uccisione di tutta la sua famiglia ad opera di militari Usa, avuto luogo nella cittadina di Mahmoudiya, in Iraq, nel marzo 2006. La forma stilistica utilizzata, della quale De Palma è stato precursore a partire dai suoi indimenticabili split-screen negli anni’70, è il collage di frammenti di immagini, presunto materiale repertoriale proveniente da media e fonti disparate: il found-footage amatoriale di un soldato della pattuglia che ha documentato la violenza con una mini-telecamera, le sessioni di video-chat con le quali i soldati in Iraq si tengono in contatto con le loro famiglie negli Stati Uniti, le clip ospitate da siti della resistenza irachena in cui assistiamo alle efferate esecuzioni dei militari Usa.

La polverizzazione del punto di vista e la varietà delle fonti documentarie ricalcano le più recenti modalità di reperimento ed editing di informazioni. Internet e le tecniche dell’era digitale, sembrerebbe suggerire il regista, potrebbero consentire, a chi ne avesse dimestichezza, di ricavare documenti di prima mano, di diversificare e moltiplicare le fonti, di approfondire la notizia scavalcando reticenze e omissis di mediatori culturali più o meno embedded. Ma De Palma è altresì cosciente che la tecnologia da sola non può bastare. Per poter comprendere e, ancor di più,  tentare di agire sulla realtà modificandola, non è sufficiente saper comporre il proprio ipertesto informativo, se poi non si è equipaggiati della coscienza critica in grado di restituire senso alla frammentarietà, al flusso multisensoriale delle informazioni.

Redacted, tenta di risvegliare le nostre coscienze assopite, indicandoci una strada possibile per recuperare nel mare indistinto di parole e immagini, un’eco di verità: se aggirare la censura dei grandi mezzi di informazione è ancora possibile, se siamo in grado di venire a conoscenza di circostanze di arbitrio e di ingiustizia con qualche pretesa di obiettività, allora l’indignazione del momento può e deve tradursi in un’assunzione di consapevolezza, in cui l’individuo ritrovi il senso delle conseguenze del proprio agire.  Una domanda pressante per un'etica politica della responsabilità individuale che ritroviamo altrettanto incombente, in un contesto diverso, nel film di Loach.

Il terzo mondo si è trasferito nella periferia londinese, tra campi di roulotte dove abita la mano d'opera straniera più o meno clandestina, carne da macello e motore dell'economia neo-liberista. Ma qui, diversamente che in casi precedenti nella sua filmografia, l'attenzione di Loach si sposta, dal punto di vista del lavoratore immigrato, precario e sfruttato, a quello dei suoi sfruttatori. E' questo slittamento di prospettiva la vera forza del film. Al centro della vicenda è Angie, giovane madre single, impiegata in un'agenzia di lavoro interinale che, dopo essersi fatta licenziare per non aver assecondato i pruriti sessuali dei suoi capi, decide di sfruttare l'esperienza professionale e i contatti che si era procurata, per tirare su un'agenzia tutta sua, iniziando quasi in semiclandestinità per non pagare tasse e licenze.

Nuovo caporalato legalizzato a tutti gli effetti, questi centri di lavoro temporaneo, anello intermedio della catena dello sfruttamento, svolgono una funzione vitale per i datori di lavoro: selezionano le "risorse umane" in base al grado di flessibilità che il lavoratore può assicurare; svolgono un primo filtraggio per tenere lontani dall'azienda gli individui potenzialmente scomodi, evitando il rischio di pretese rivendicative e sindacalizzazione. Angie è una tosta quanto basta per poter gestire l'arruolamento di centinaia di lavoratori immigrati, smistandoli e indirizzandoli quotidianamente alle rispettive destinazioni. Decide chi lavora e chi no, riesce ad arginare il malcontento degli operai quando deve comunicare un ritardo nella  consegna delle paghe, arriva persino a subaffittare alloggi in cui ciascun letto è utilizzato a turno da più lavoratori ("così lo trovano caldo").

Ma Loach evita di marcare i suoi personaggi con un giudizio senza appello, presentandoci  figure sfaccettate che alternano alla mancanza di scrupoli, gesti di un'inaspettata generosità. Una schizofrenia morale in cui sembrano celarsi gli ultimi baluardi di resistenza di un'umanità offuscati sotto la coltre della logica del libero mercato. Anche in questo caso, come per il film di De Palma, Loach sembra affermare che non esistano facili scorciatoie e che ciascuno di noi debba trovare dentro di sè la forza morale di opporsi quotidianamente, nel pubblico come nel privato, all'edificazione di una nuova società di schiavi e di padroni.

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One thought on “Venezia 64 – Il nuovo umanesimo di Loach e De Palma

  1. sfiducia nella politica, indignazione, rabbia: è ciò che ho provato anch’io a leggere il quotidiano quel giorno, e l’unica spinta e possibilità che mi veniva in mente era quella dell’agire diretto, non più mediato, appunto, dalla politica. Solo che l’azione e la responsabilità personale da sole non sono mai bastate a cambiare realmente le cose. E in un mondo che ci vuole soli e sradicati, così da renderci manipolabili e ricattabili, rispondere individualmente è in fondo nelle previsioni auspicabili di chi sta ai vertici di questo sistema. Organizziamoci!
    Un saluto.

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