Il film inizia con una metafora: la pallina da tennis sbatte sul net e cambia le sorti di un’incontro sportivo. Nel frattempo una frase scorre sopra un prato di accecante colore: “Colui che ha detto preferirei essere fortunato piuttosto che buono, aveva capito tutto della vita”.

Woody Allen contraddice settant’anni di domande laceranti e di geniali sentenze di colpevolezza. Si abbandona ad un’amara rassegnazione mentre firma il suo trattato di personale assoluzione. Senza avvertimento alcuno, all’inizio di un film raffinato ed elegante, articolato e fluido, si libera di se stesso e del suo mondo interiore. La pallina rimbalza sulla massima d’apertura e fa volare il newyorkese verso un panorama sociale atipico. Spinge il cineasta a un improvviso movimento che lo porta, con terrore invisibile, verso un orrore impietoso. Lo obbliga a girarsi verso un mondo che è di fronte e lontano. L’autore attraversa l’Atlantico, getta a mare il Jazz e approda su un Tamigi alto-borghese. Risale un fiume sconosciuto al suo cinema e lo scruta dolorosamente sotto le note conservatrici del melodramma. In questo ricco angolo grigio, ordinato, a tratti verdissimo di vecchio mondo, fa esplodere la miccia innescata da un prologo intimamente e apparentemente rivoluzionario: basta domande, basta ricerca, è questione di fortuna, fato, dell’assoluta casualità del vivere umano. Una frase, per quello che una frase può contare, si posa sul cinema di Allen col silenzio di una pietra caduta e si ferma in mezzo ad anni di capolavori, pezzi da mercato ed infinite considerazioni grottesco-esistenziali. Precedenti e probabilmente future, perché in fondo le persone non cambiano mai. Dal rimbalzo vincente parte un film esterno ai mondi (e ai modi) dell’auto-indagine alleniana. Vicino all’embrionale Crimini e misfatti, ma più  secco nel tratto, disilluso nello sguardo, diradato in un’ironia che si è fatta amara e crudele: senza  bene, senza male e senza morale. Andando alla ricerca del  Woody sommerso, viene da chiedersi quale considerazione nutra, il seccaccio stempiato di Manhattan,  per il giovane Chris, bello e poco consapevolmente dannato, che mangia i bisogni insoddisfatti di una società potente a cui non appartiene. La vittoria del protagonista è anche la sua sconfitta, il suo trionfo sociale è il suo fallimento esistenziale. Eppure egli supera in curva, salta ostacoli insormontabili e il suo castigo è pagato, istituzionalmente, da un povero anonimo disperato. Il suo terrore dura il tempo di una confessione trattenuta e distratta su una panchina del parco. Poi riparte il suo viaggio, a testa bassa e lucidissima, verso la scalata a un mondo mitico. Chris sembra perdere l’ascolto della pancia e con essa l’universo delle sue passioni. Ma è un naufragio il suo? O nell’intimo dell’autore lo sguardo di Jonathan Rhys-Meyers, che non molla mai, che uccide il simbolo della sua natura con le armi dell’upper class, è parte segreta e prepotente dell’animo umano? Può darsi che Allen consideri questa spinta cerebrale come superiore a quella viscerale e miope degli istinti più immediati. È possibile che la sazietà procurata dall’acquisto di potere sia superiore a quella fornita dalle soddisfazioni ormonali. Forse Jonathan-Chris, con la sua silenziosa e rabbiosa determinazione, col suo agire rapace e deciso, riesce a  spingere la pallina dall’altra parte del campo, a farla rimbalzare dove vuole lui. Perché sa sparare bugie col viso della verità e vivere parallelamente in due mondi che si odiano. Lo fa per inseguire il profondo piacere della vittoria, della conquista, del domino costante sul prossimo. La sua perdizione coincide con quella dell’indegna élite a cui si aggrappa? È la stessa che affiora dal ritratto caustico che l’invisibile clarinettista compie di una borghesia senza vita? Chris è forse incapace come gli altri di ammettere l’abissale ipocrisia dei rapporti sentimentali e personali? In che forma è paragonabile a quelli che accumulano arte per il desiderio di possedere e mostrare? Il suo viaggio sembra piuttosto solitario, simile a quello del kubrickiano Raydmond Barry: anche lui irlandese, forte ed egoista, deluso dall’amore e avviato alla deriva. Come il settecentesco commiserevole arrampicatore, il Chris di Match Point gira intorno alle figure e agli schemi della categoria sociale di cui si nutre, ma lo fa senza vera integrazione, senza odio, senza amore, privo di ogni forma di partecipazione emotiva. Chris non ha  considerazione per un mondo a cui non replica mai. Non risponde, né con la voce né col corpo, alla mentalità realistico-delirante che hanno i suoceri e il cognato. Cammina da solo, producendo un’antipatica affezione per la sua disperata negatività. Ama Nola quando è deciso ad amarla, la uccide quando è sicuro di volerla eliminare. L’amico che incontra gli racconta l’ammirazione per il suo talento tennistico, ma Chris non ha bisogno del passato e non ascolta perché è mosso da una spinta alla realizzazione che coincide (può darsi non definitivamente) con gli stati d’animo garantiti dall’agiatezza economica raggiunta. Null’altro che gli effetti pratici  lo interessano della fetta sociale che è riuscito a mordere. Tradirà ancora perché non appartiene che a se stesso. Non sa fare nulla, però sa trasformare il fallimento sportivo in consapevolezza caratteriale, una conoscenza amicale in scalata sociale, una corretta passione amorosa in guadagno e posizione, quella sbagliata in un omicidio imperfetto ed impunito. Sa uccidere e seppellire, in un arco di tempo straordinariamente breve, anche i mostri della sua coscienza. Sa ripartire mentre il mondo che momentaneamente gli dà benzina, quello con cui Allen è implacabile e feroce, rimane fermo a spompinarsi con le sue conquiste. Chris guarda fuori alla finestra mentre, nell’elegante salone, l’antico mondo continua a celebrarsi. Ha sposato questi valori senza amarli, senza compenetrazione, ci vive accanto in una recita minimale e perfetta. Non sarebbe male sapere, conoscendo Allen, il suo stato emotivo nei confronti di questo folle e incontrollabile parassita. Quale stima nutra, il passeggiatore pensante di Central park, per uno che pensa una volta sola e poi agisce. Il film di Chris cammina accanto a quello coralmente altmaniano, borghesemente chabroliano che il nuovo, sorprendente Woody riesce a creare su un mondo finora a lui estraneo. Funzionano entrambi e si arricchiscono a vicenda, incastrandosi a meraviglia nella forzatura del noir, nella facilità con cui si cade nel romanzo cinematografico, per uscirne colpiti, stralunati e sazi di cinema. Match point è il film più denso e riuscito di questa prima fase di stagione.

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