L’ America per Muccino, così come per il protagonista del suo film, sembra essere un posto ostico ma fondamentalmente giusto (nel selezionare gli adatti): chi ha talento, chi si impegna e non demorde mai, ce la fa. E farcela, per Will Smith, che corre e si affanna per le due ore del film, significa passare da uno stadio acuto di indigenza e di emarginazione al successo economico e al prestigio sociale, significa traversare una linea ben precisa che separa decisamente chi sta “fuori” da chi sta “dentro”, al centro della società degli uomini.

Chris Gardner, nome della persona che ha ispirato la storia del film oltre che del personaggio, è l’eroe di una favola a lieto fine, che premia con la massima ricompensa terrena – l’assunzione come broker, ovvero il lavoro più trendy e più redditizio nell’America degli anni ’80 – un uomo che ha fatto veramente fatica, e che, nonostante l’incredibile sequela di incidenti, disgrazie e contrattempi, non ha mai perso il sorriso, né ha fatto mai mancare al figlio una carezza.

Le lacrime trattenute di Will Smith, nel momento in cui capisce che sta traversando la suddetta linea, sono un momento di verità che ricompensa di tutta l’ansia accumulata (e all’attore probabilmente varranno l’oscar), tuttavia per il pubblico italiano è impossibile a quel punto non fare qualche considerazione su quello che significa ricercare la felicità. Non solo il titolo del film, infatti, parla chiaro, ma c’è persino una scena in cui Will Smith guarda il viavai dei broker fuori dalla borsa e pensa tra sé e sé che non gli è mai capitato di vedere tanta gente felice in vita sua…

Ora, con buona pace delle dichiarazioni cautelative dell’inedito duo Muccino-Smith in conferenza stampa, bisogna dire che la disinvoltura dell’equazione “successo e denaro = felicità”, che per la cultura italiana è francamente ardita, nel film c’è, anche perché negli Stati Uniti il denaro rappresenta un valore non solo materiale, ma è piuttosto la misura del valore personale. In Italia, invece, i soldi – ce lo insegnano da bambini a scuola, a casa, in chiesa, dovunque tranne forse in televisione – non solo non portano quasi mai la felicità, ma raramente sono una ricompensa per chi lavora e fatica, l’idea comune è piuttosto che si tramandino per privilegio.

Per quanto negli ultimi 20 o 30 anni il vento berlusconiano abbia letteralmente travolto l’Italia, con la sua filosofia dei vincenti e dei perdenti, con la sua retorica formidabile del self made man, tuttavia non è bastato a spazzare via secoli di cattolicesimo secondo il quale una vita senza amore, senza beni spirituali, non può essere una vita felice, nonostante la più straordinaria delle scalate sociali. Non a caso l’Italia è il paese dove l’invidia verso i ricchi e i potenti si accompagna quasi sempre al sospetto e alla diffidenza: chissà dove hanno lasciato l’anima per arrivare dove sono…

Di tutto questo, nonostante la regia made in Italy, non c’è traccia alcuna nel film, che d’altronde è piacevole, avvincente e a tratti anche commovente, soprattutto per via del tenero rapporto padre-figlio che rimette ogni cosa al suo posto. Bisogna concluderne che Muccino in America è decisamente al suo posto e non solo perché probabilmente sposa nell’intimo l’ideologia del sogno americano (d’altronde lui stesso ne è stato un beneficiario!) ma anche perché sin dai tempi dell’Ultimo bacio, ugualmente discutibile dal punto di vista delle semplificazioni sociologiche, è evidente che Muccino non è un autore ma un bravo professionista della regia, che gira con classe e facilità e possiede quel talento particolare che consiste nel saper cavare emozioni anche dalla scena più prevedibile e dalla storia più semplice. Proprio quello che serve a Hollywood, la fabbrica dei sogni…

 

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