Nel 2067, un giorno di marzo qualunque, la francese di origine cecena Milana, capelli imbiancati e occhi di ghiaccio profondissimi, guarderà dritto in camera e ci racconterà la sua storia di undicenne sans papiers nella Francia dell’anno 2009. Un tempo in cui ancora esistevano istituzioni preposte all’apprendimento collettivo chiamate scuole e il governo disponeva il rimpatrio forzato di intere famiglie di stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno, e per farlo non esitava a inviare i propri flic fin tra i banchi di scuola. Giorni cupi e lontanissimi, quelli in cui sbocciava, per Milana, il primo amore.
Comincia così il sorprendente Les mains en l’air (le mani in alto, ndr), impietoso atto d’accusa contro le “politiche di accoglienza” della Francia di Sarkozy e dell’Europa tutta, grido di dolore e insieme chiamata alle armi rivolta alle residuali coscienze democratiche che ancora la abitano. Ma, soprattutto, opera di intenso valore poetico, che emoziona profondamente per come riesce a raccontare un’iniziazione sentimentale che si trasforma in resistenza collettiva al fascismo camuffato dei nostri tempi non per un sovrappiù di discorso ideologico, ma in risposta a una pura esigenza affettiva.

La storia di Milana e dell’amato Blaise, di Alice, di Claudio e degli altri componenti la scatenata banda multietnica e perfettamente assortita che mette in scacco genitori e gendarmi di mezza Parigi, sarebbe quella di un gruppo di ragazzini qualsiasi che addenta la vita quando è più acerba. Sennonché attorno e contro di loro è in atto una guerra. Un giorno l’undicenne maghrebino Youssef viene arrestato ed espulso insieme alla sua famiglia. Poi una donna senza documenti si suicida per paura di essere scoperta dalla polizia. Gli insegnanti più progressisti cercano di proteggere i figli dei sans papiers facendoli entrare e uscire da scuola di nascosto, alcuni genitori si fanno carico di ospitarli a casa propria. Ma su Milana grava concreta la minaccia di espulsione, e allora i ragazzi decidono di fare da soli: pianificano con cura tempi e modi della fuga, approntano una cantina a mo’ di nascondiglio e una mattina spariscono e vi si rifugiano, facendo disperare i genitori per giorni. Cambieranno per sempre le proprie vite e, forse, il mondo.

Autore di questo piccolo gioiello presentato a Cannes 2010 e in uscita ora nelle sale italiane (giusto a un anno di distanza…) con il titolo Tutti per uno, è Romain Goupil, un vero irregolare del cinema francese. Camera d’or proprio a Cannes e nomination all’Oscar nel lontano 1982 per l’esordio Morire a 30 anni (sul maggio ’68), in seguito Goupil ha realizzato una decina di lavori, tra lunghi, corti, film per la tv e documentari, molti dei quali con scarsa o nessuna visibilità fuori dalla Francia. In compenso un’intensa militanza politica, e si vede, nell’estrema sinistra, in particolare nella Lega comunista (d’ispirazione trotskista). Prima, negli anni ‘70, era stato assistente di Godard (Si salvi chi può… la vita), ma guardando il suo film non si può non pensare a Truffaut, alle imprese di Antoine Doinel e soprattutto a Gli anni in tasca, a quei bambini che “battono la testa contro tutto, la battono contro la vita, ma hanno tanta grazia e poi hanno la pelle dura!”. Bambini resistenti, corteggiati e amati da una cinepresa, in Truffaut come in Goupil, che non tenta mai di rubare loro qualcosa – uno sguardo, una lacrima, una risata – né di sovrapporre/imporre ai loro gesti una visione o un senso adulti. Cerca piuttosto di seguirli, di guardare il mondo come loro, di farsi insegnare la vita. Di fare cinema con loro, non su di loro.

tutti per uno film

C’è una sequenza ricorrente in Les mains en l’air, una specie di ancoraggio, tanto narrativo che visivo, offerto all’attenzione dello spettatore. Ogni mattina i genitori di Blaise e Alice, in prima linea nelle iniziative per tutelare i “clandestini”, accompagnano a scuola i propri figli più l’“adottata” Milana. L’immagine è pressoché sempre la stessa: tenendosi per mano, i cinque avanzano lentamente percorrendo il lungo viale alberato che conduce alla scuola, ai lati i due adulti (interpretati dallo stesso Goupil e da Valeria Bruni Tedeschi… proprio lei, la cognata del Presidente!), in mezzo i ragazzini. La camera si muove lungo un carrello a precedere i cinque, definendo, a rigore di grammatica filmica, delle figure intere all’interno di un campo lungo. Tuttavia la mdp è molto più bassa di quanto sarebbe lecito aspettarsi, tarando le proporzioni della figura intera non sugli adulti ma sui ragazzini: con la conseguenza che le teste dei genitori (e parte dei loro corpi) sono drasticamente tagliate fuori dal quadro mentre i visi dei tre fanciulli vengono a occuparne il centro.

Dunque, pare dirci fin quasi didascalicamente Goupil, sebbene questa storia sia raccontata da una Milana ormai adulta, il punto di vista del film è ostinatamente quello dei ragazzi. I grandi, anche quelli che stanno dalla parte giusta, sono sempre un passo indietro, si affannano in un volenteroso engagement di parole, arrancano ai margini di un’inquadratura-mondo che fondamentalmente non gli appartiene. Bene al centro, invece, ci sono i ragazzini, un po’ attori un po’ no, in virtù di una direzione che, privilegiando la naturalezza, alterna recitazione a soggetto e improvvisazione. E questa è la sua forza. Il risultato infatti è una levità straordinaria dell’azione, che contribuisce a fissare Les mains en l’air in una dimensione a metà tra il realismo dello scenario, assestato sul tono drammatico che il racconto di Milana impone, e il fiabesco/picaresco delle imprese della banda. La “battaglia sociale” intrapresa dai ragazzini è combattuta con le armi che, sole, il loro immaginario può conoscere e ammettere: messaggi in codice, bigliettini passati di nascosto in classe, rifugi ben provvisti di cioccolato e biscotti ma non di wc, attribuzione di immaginifici superpoteri a oggetti di uso quotidiano (la suoneria del cellulare di Blaise che sarebbe udibile solo ai bambini). L’improvvisa “politicizzazione” dei giochi fanciulleschi e innocenti, questa ludica resistenza nel nome di Milana, è, come si diceva, parte integrante di un’educazione alla vita, la sua naturale prosecuzione. È l’impegno più alto assunto davanti a un compagno di giochi.

Chissà se davvero tra 60 anni si guarderà indietro, ai giorni bui di oggi, con sdegnato stupore. Di sicuro la triste e inerte realpolitik contemporanea, asservita allo strapotere dell’economia e avvinghiata a formule politicistiche stucchevoli, molto avrebbe da imparare dai piccoli partigiani di Goupil. Temporaneamente costretti mani in alto, dalla loro hanno il tempo.

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2 commenti su “TUTTI PER UNO, un mondo per bambini resistenti

  1. Questo film ricorda Truffaut ed il suo modo di mostrare lo sguardo dei piccoli: ci vedo anche la fuga dei 400 colpi.
    Riguardo al titolo del film italiano, sarebbe stata meglio la traduzione letteraria dal francese, ma perchè ritorna sempre il vizio di riadattare i titoli?!
    Positivo: in quanto cinema “engagé”, mostra i punti dolenti della politica di integrazione francese.
    Negativo: non ha un grande spessore come film, forse l’affiancamento di Goupil alle grandi firme è un poco impegnativo?

  2. Personalmente l’ho trovato un film scarso, un frutto immaturo (quasi marcio) che non cresce come deve. Goupil ha la possibilità di dire la sua su un tema scottante (ricordiamo “Welcome”) e invece si tira indietro. La sua regia è piatta e non basta la buona prova dei piccoli attori per dare lustro ad un film che rimane impotente… ne parlo anche qui: http://onestoespietato.wordpress.com/2011/06/03/tutti-per-uno-una-pallida-favola-moderna-sull%E2%80%99immigrazione/ è il mio blog personale.

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