All’interno della rassegna “Americana”, luogo che accoglie pellicole indipendenti ed esperimenti di registi affermati, ha trovato spazio il film statunitense Old Joy, diretto dal giovane Kelly Reichardt. Un delicato road movie a basso costo pieno di musica essenziale e dilatata (Will Oldhman, che interpreta Kurt, già leader del magmatico progetto Palace e di Bonnie Prince Billy, ha scritto gran parte della musica), di suoni d’ambiente e di natura che scorre –in ogni caso- di silenzi carichi di ricordi, di parole trattenute e forse già perdute.

Kurt e Mark, due giovani uomini di cui il secondo in attesa di un bambino dalla compagna, partono per un fine settimana nei boschi del nord, alla ricerca di un posto accanto a una sorgente dove poter campeggiare. Il viaggio si snoderà all’inseguimento del luogo, conosciuto da Kurt, che diverrà sempre più un punto confuso di una mappa che non si vuol leggere. Con forse la paura di arrivare. I due parlano e ridono, raccontano e si raccontano, complici, ma c’è un’atmosfera strana, una tensione compressa che getta malinconia sul volto di Kurt e inquietudine su quello di Mark. La musica procede lenta dallo stereo della macchina, come la strada sulla quale trovano immagine i pensieri e le emozioni, sospese in una traiettoria misteriosa e densa, non distesa, che ci induce sotterraneamente ad attenderci qualcosa. E questo arriverà a poco a poco, costellato di silenzi e bagliori che sono i vettori di piccoli fatti interiori che accadono tra i due, nel mezzo. Si capirà dai balbettii dei loro corpi, spostamenti, slanci a metà e schivamenti, più che dalla rivelazione, esplosa e subito ricacciata nel fondo, che hanno vissuto una storia d’amore. Che Kurt, sensibile e solitario, in ascolto continuo dei microaccadimenti interiori e invece sordo al suono affollato ma vivo della realtà, pensa ancora molto a Mark. Che Mark, invece, desideroso di avere una famiglia, di partecipare attivamente all’organizzazione della comunità, di avere “una vita come tutti gli altri”, è però strappato dall’affetto non codificato e dalla sensualità repressa che prova verso l’altro (significativa è l’aprogettualità con cui gli parla dei suoi impegnativi progetti), cui comunque ha già rinunciato. Che al ritorno Kurt, occhi impauriti ma aperti, inizierà a far di tutto questo un ricordo, e forse a vivere (“il dolore è solo una gioia consunta”, dice piano, immergendosi di lì a poco in una strada abitata da facce sconosciute ma forse meno ostili), mentre Mark, bocca sottile e mobile, apparirà segnato da una piega malinconica, che magari si scioglierà un poco al ritorno a casa. Una conclusione da immaginare, delle storie da completare, con uno sguardo indulgente e partecipato verso due tipi che seppur confusamente sembrano non voler fuggire il senso delle cose.

La macchina da presa asseconda con discrezione e grazia questa ricerca, illuminando con precisione i tentativi di comprensione e gli spostamenti d’equilibrio tra i protagonisti, riuscendo a non fare di tutto questo uno spettacolo, né una facile consolazione.                 

Si preferisce chiudere con un piccolo e nebbioso ricordo di Pavese su Torino, città di inattese aperture che accoglie da anni questo coraggioso festival, e che per un fine settimana ha accolto anche me.

Paesaggio
Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
nella bella città, in mezzo a prati e colline,
e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono
ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori
vi camminano. Vanno nella bianca penombra
sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.
Può accadere che l’aria ubriachi.

Il mattino
si sarà spalancato in un largo silenzio
attutendo ogni voce. Persino il pezzente,
che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,
come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.
Val la pena aver fame o esser stato tradito
dalla bocca più dolce, pur di uscire a quel cielo
ritrovando al respiro i ricordi più lievi.

Ogni via, ogni spigolo schietto di casa
nella nebbia, conserva un antico tremore:
chi lo sente non può abbandonarsi. Non può abbandonare
la sua ebbrezza tranquilla, composta di cose
dalla vita pregnante, scoperte a riscontro
d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.
Anche i grossi cavalli, che saranno passati
tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.

O magari un ragazzo scappato di casa
torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia
sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,
le miserie, la fame e le fedi tradite,
per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.
Val la pena tornare, magari diverso.   

 

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