Si fa sempre una certa fatica a riprendersi da un viaggio. Di solito.

Poi, se si sono visitati posti molto speciali, la fatica diventa disagio, nostalgia, voglia di tornarci.

Israele, Palestina, Terra Santa per tutte le tre religioni monoteiste del pianeta.

Terra che sembrerebbe racchiudere il tesoro dell’umanità, visto quanto è contesa da sempre.

E senza andare troppo lontano nel tempo, ma affacciandosi agli anni 60, nel ‘68 delle rivoluzioni mitteleuropee, Israele schiacciava ancora una volta la Palestina, annettendo nuovi territori grazie alla guerra dei sei giorni.

Ma Hebron restò città Palestinese, non fu conquistata da Israele.

Hebron… paradossalmente la radice semita di questa città riporta al nome “amico”. E storicamente il suo significato sarebbe anche compiuto, visto che è questa la terra di Abramo, della quercia di Mamre, dove fu annunciata la nascita di Isacco, dove Sara e Abramo hanno riso al lieto annuncio.

Ed è proprio in Abramo che le tre religioni monoteiste s’incontrano, tutte d’accordo nel riconoscerlo come padre e amico.

E’ questa l’informazione racchiusa nella storia dell’uomo che basterebbe a gettare le basi per un’amicizia duratura e solidale. E invece. Torniamo al passo indietro fatto nel ‘68. Dopo la guerra dei sei giorni Israele rimase fuori da Hebron. Allora c’era una donna davvero forte alla guida del ventesimo anno di vita dello stato israeliano: Golda Meier.

In quell’anno, un gruppo di coloni ebrei (ortdossi e sionisti) decise di occupare Hebron. Di insediarsi senza autorizzazioni.

 Da allora ad oggi il risultato è che un gruppo di 500 coloni, protetto da 2.000 soldati israeliani, terrorizza una popolazione di 150.000 arabi, compiendo ogni sorta di sopruso e crudeltà e rosicchiando giorno dopo giorno, metro dopo metro, la città ai suoi legittimi proprietari.   

Ecco il documentario – This is my Land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson –  che ha vinto il Bellaria film festival.

Qualche anno fa Giulia Amati fu invitata a condurre un corso di filmmaking proprio ad Hebron. Lì ha incontrato Yehuda Shaul, ex soldato israeliano di servizio a Hebron, che ha fondato l’organizzazione Breaking the silence, in difesa e in solidarietà alla popolazione palestinese di Hebron. Attraverso una visita guidata Yehuda mostra a turisti, giornalisti, politici e volontari ciò che avviene nella città sott’assedio.

Le immagini raccolte anche attraverso gli archivi delle Ong presenti sul territorio sono agghiaccianti. Anziani e abitanti costretti a lasciare le loro case con la forza. Bambini presi a sassate di ritorno dalla scuola. Negozi costretti a chiudere. Vie dove non è permesso accedere o passeggiare, anche laddove ci sia residenza. Persone costrette a vivere in case con balconi e finestre ingabbiate per le sassate che arrivano da fuori. Insulti, continui insulti, sui propri cari e sul proprio onore che in quelle terre rappresenta il valore massimo della vita, più della vita stessa. Orti e abitazioni devastati dai coloni e dai soldati. Una famiglia con bambini svegliata nel cuore della notte e costretta ad aspettare fuori casa sotto la pioggia che i soldati finissero una perquisizione durata 4 ore. Perché tutto questo? Per sfinirli. Per costringerli ad abbandonare la loro terra. Per ucciderli psicologicamente.

Sono molte le persone che denunciano questi crimini. C’è una solidarietà fortissima anche da parte di molti ebrei moderati, parlamentari e giornalisti che si sono a lungo scontrati contro un muro di gomma e che non risponde alle denunce e alle mozioni presentate al governo. Tra i volontari c’era un ragazzo sud africano che ha detto “Qui si è parlato di apartheid. L’apartheid era niente in confronto, per quanto discriminati nessuno c’ha mai detto che quella non era la nostra terra”.

 Tutti i coloni gridano continuamente “Questa è la mia terra!”. Tutti rivendicano la supremazia ebraica a possedere quei territori. E giù a mettere in bocca a Dio molte frasi da immobiliarista più che da Padre di tutti.

Una comunità che svolge un ruolo importante è quella internazionale. Formata da donne e uomini cristiani e volontari che si frappongono tra coloni e popolazione araba, facendo letteralmente da scudi umani, beccandosi ogni sorta di insulti e sassate. Uno dei registi Stephen ci ha raccontato di un clamoroso episodio di qualche anno fa: una diciottenne austriaca fu sfregiata alla faccia con una bottiglia di vetro durante un attacco dei coloni a un gruppo di donne arabe e ai loro bambini di ritorno dalla scuola.

C’è una scena davvero bella ed emozionante, il canto notturno davanti al cancello di una caserma israeliana per dare coraggio a un ragazzino palestinese legato e attaccato fuori perché aveva difeso la sorella e la cognata dalle botte dei soldati.       

Un’anziana donna austriaca volontaria e abitante di Hebron lascia la sua testimonianza. Parla degli ebrei della sua infanzia. Di quando li vedeva scappare dal nazismo e di quanto fosse felice nel ‘48 ad aver appreso che Israele aveva uno stato. “Dopo tutto l’orrore che hanno vissuto, non avrei mai immaginato tutto questo.”

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