[*12] – This must be the place ha delle scene molto belle, che accadono molto spesso grazie alla scelta dei luoghi. Una distesa di neve bianca inquadrata in campo lunghissimo, con al centro un casa di legno, che ha il 70% dei meriti nella grandiosa punizione finale di cui si fa poi teatro; la piscina vuota, una piscina d’inverno, della villa di Cheyenne; la piscina di plastica in mezzo al nulla del New Mexico, e la madre del bambino che, guardata da sott’acqua, si avvicina al figlio per abbracciarlo.

Al di là di questo, This must be the place è incentrato su Sean Penn. E ciò solleva tre ragionevoli dubbi, esposti, qui, dal più frivolo al più serio.

Dubbio numero uno. Cheyenne è una specie di “idiota” dei nostri tempi, quanto a sincerità, che va avanti per inerzia trascinando con sé, alla stregua di Linus, “qualcosa”. Un molto ricco, un quarantacinquenne ancora adolescente; un lento per troppa eroina, un annoiato, un forse depresso forse no, che però improvvisamente decide di scegliere di non avere paura. “Perché almeno una volta nella vita bisogna scegliere di non averla”, come lui stesso, in maniera ridondante, puntualizza in una scena, che, per questo stesso motivo risulta fin troppo esplicita (e anche un po’ patetica). Che il protagonista a un certo punto cambi è  piuttosto evidente. Quello che non si capisce è, più che altro, la facilità della sua evoluzione. Come se il Viaggio bastasse  a catalizzare il cambiamento e a giustificarlo allo stesso tempo. Cioè, l’evoluzione del personaggio non è percepita nella sua necessarietà, nella sua obbligatorietà, esclusiva e fisiologica.

Dubbio numero due. Il film si presenta quasi spontaneamente come se fosse un quadro magic eye, di quelli in cui puoi vedere la figura soltanto accavallando gli occhi, e cioè guardando attraverso: nelle trame della tessitura, esce fuori tutto l’artificio della scrittura del film, che sembra realizzata di tutto punto, secondo le regole classiche (o furbe?) della narrazione e della caratterizzazione del personaggio. Tony è sparito, Tony manca. Tony non ha volto, ma la sua assenza si sente tanto quanto non si capisce. Anzi, più non si capisce, più si sente. Trucchetto. Cheyenne ha un tic e soffia il ciuffo di capelli che gli cade davanti agli occhi: più che un tic è un gesto che ripete; Cheyenne parla lentamente, e in maniera un po’ robotica: Cheyenne dice una stessa frase per tre volte (“qualcosa mi ha disturbato, non so bene che cosa ma qualcosa mi ha disturbato”), cioè la ripete. E la ripetizione è ciò che fa affezionare. Cheyenne ripete di tanto in tanto una risatina stupida, anche se Cheyenne è molto intelligente. E tagliente. E quando taglia fa anche ridere, perché il suo è sarcasmo.

Ma un sarcasmo noto perché, dubbio numero tre, è lo stesso di Hanno tutti ragione, dove, prima di Cheyenne, Tony Pagoda dice che odia quelli che si definiscono viaggiatori e non turisti. Del film di Sorrentino si parla per lo meno da un anno: dopo Il Divo, il grande regista va in America, a lavorare con un grande attore. Cheyenne ha il sarcasmo di Tony Pagoda, ha dunque un sarcasmo italiano; Cheyenne ha il tic del ciuffo, ma c’è qualcosa di profondamente manieristico all’italiana in questo tic e, per la precisione, c’è tutta la guapparia napoletana (o della caricatura del nobile). Né dublinese, né newyorkese, in verità; più che altro, napoletana. L’identità del personaggio non è – in una parola- credibile. Quello che emerge è un tentativo di innesto tra culture. Si sente l’estraneità del soggetto e, contemporaneamente, il suo inconsapevole addomesticamento. Trucco e parrucca dell’attore sono allora proprio un tentativo di mascheramento, prima di tutto culturale, dell’inautenticità del personaggio. Non a caso, solo quando il film restituisce uno Sean Penn ripulito, guardando il suo viso autentico, abbiamo per la prima volta l’America, e, con essa, una sensazione di verità. La scena del pattinatore di Central Park è, in questo senso, emblematica. La maestria di un mito americano (il tizio in roller a Central Park) messa in discussione (derisa) dalla sua caduta (letterale). E a parlare italiano Sorrentino è bravissimo. Andando a finire lontano, è come se il film non trovasse la giustificazione della sua esistenza. E gli ampi spazi americani risultano un po’ sprecati se, con l’ambizione di essere il posto giusto al momento giusto, sono il posto giusto al momento sbagliato, e quindi, in definitiva, il posto sbagliato tout court.

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3 commenti su “This would be the place: tre ragionevoli dubbi sul film di Sorrentino

  1. Pezzo molto interessante!! Non sono proprio d’accordo con te sul mettere alla berlina il personaggio di Sean Penn. Più che altro credo, e ne parlo anche sul mio blog Onesto e Spietato (facci un salto!), che il problema stia nello scarto che rimane tra magnificenza tecnica e pochezza contenutistica. Ho avuto l’impressione di un’accozzaglia di personaggi e situazioni che non si amalgano tra loro… la bellezza dell’immagine non basta!

  2. Concordo. D’altra parte secondo me la “cifra” del film la dà il coinvolgimento nella narrazione (totalmente gratuito) dell’Olocausto, che risponde a quella vecchia legge di sceneggiatura che dice: tanto più debole è un film, tanto più grande dovrà essere la tragedia storica evocata a sproposito per salvarlo. Invano.

  3. Interessante la recensione. Anche a me è parso inautentico il personaggio, molto viste ed inutilmente ricercate le inquadrature, trito il road movie, astruso il riferimento alla Shoah. Per farla corta: mi sono annoiato a morte.

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