Non è bello cominciare a parlare di un film raccontandone il finale, ma visto che in questo caso non stiamo parlando di un’opera di fiction che richiederebbe la massima attenzione nello svelare lo scioglimento di una situazione o il colpo di scena conclusivo, mi permetto di prendermi questa libertà. Perche l’immagine conclusiva di Martin Scorsese, uno dei massimi cineasti contemporanei, con la commozione negli occhi e nella voce, che si rivolge parlando in macchina a Elia Kazan, uno dei più grandi registi del secolo scorso scomparso nel 2003, e gli confida il modo in cui ha voluto esprimere gratitudine e ammirazione per il suo lavoro (“Facendo film“), è un momento che dà un senso e uno spessore ulteriori a questo struggente documentario cinefilo il cui titolo, A letter to Elia, suggerisce già il tono intimo e rivelatore.

Spogliandosi dal ruolo di autore celebrato e osannato, e calandosi in quello più sommesso ma ugualmente appassionato di spettatore, Scorsese parla a nome di tutti quelli che guardano un film senza chiudere l’esperienza della visione dentro una sala cinematografica, ma vi ricercano, attraverso più visioni, in  momenti differenti della propria vita, significati, rimandi, suggestioni capaci di illuminare e di offrire un senso di calore e solidarietà umana anche all’esistenza confusa e solitaria di un ragazzino nato nel Queens, o nella periferia di una qualsiasi altra capitale del mondo. E l’affinità nei confronti di Kazan e delle storie che ha raccontato era inevitabile: l’incontro tra un figlio di emigranti italiani e un emigrante greco artisticamente formatosi nel vibrante e selvaggio microcosmo della New York degli anni ’40 (quello di Lee Strasberg e Tenesse Williams), capace di portare al cinema la verità di situazioni, comportamenti, gesti e volti di cui il pubblico americano era affamato all’inizio degli anni ‘50, come dimostrarono le reazioni di isterismo di fronte all’esplosione dei volti  e dei corpi di Marlon Brando e James Dean.

Questo stare attaccati alla realtà quotidiana,  essenziale, “bassa”, di un sottoproletariato sia urbano che rurale, diventa il viatico per penetrare con violenta energia dentro la psiche e l’anima di personaggi tormentati, ossessionati dal desiderio di conoscere se stessi, toccando, se necessario, l’abisso con il rischio di non tornare più in superficie perché quella superficie nel frattempo è diventata inaccettabile.

Scorsese vede e ci fa vedere il cinema di Kazan estrapolandone quelle scene che più di altre si sono impresse nella sua memoria e che fanno diventare le immagini girate da Kazan una sorta di manifestazione visiva della memoria, una sfilata di ricordi di celluloide custoditi, elaborati, analizzati e restituiti a noi spettatori con un carico di consapevolezza che è prima personale e umana, e solo successivamente diventa cinefila. Martin ci fa compiere lo stesso percorso dello Scorsese ragazzo impressionato dal riconoscere sul grande schermo un mondo che gli era vicino e familiare, partendo dal modo di parlare, di muoversi, di camminare, di agire, seguendo l’istintualità e il contatto con il proprio centro emozionale a volte disordinato, stordito e alterato, ma che rendeva vivi i personaggi ed entusiasmanti e coinvolgenti le pur livide e brutali vicende in cui i protagonisti erano coinvolti durante la proiezione.

E mentre Scorsese parla, rivediamo, oppure vediamo da un’angolazione completamente diversa, scene prese da Fronte del porto, Un volto nella folla, Splendore nell’erba; i silenzi e gli sguardi di Brando, Montgomery Clift, Andy Griffith, Eva Marie Saint e tutto il meglio di quella gloriosa stagione dell’Actor’s Studio, il cui testimone sarebbe stato poi raccolto dalla nuova generazione, traghettata nel grande cinema in parte anche da Scorsere, con il suo attore feticcio Robert De Niro in testa. La diversità sta nel guardare quelle immagini attraverso le parole di chi non cerca di spiegarne il significato ostentando una competenza che peraltro possiede, ma di chi fa emergere e percepire le sensazioni di disagio, di insoddisfazione e di rabbia che sottindendono ad ogni gesto, ad ogni silenzio sospeso, in un’atmosfera di struggente lirismo. Ascoltare Scorsere che racconta La valle dell’Eden è un’esperienza nell’esperienza, come se qualcuno ci stesse parlando di se stesso attraverso la storia di qualcun’altro, anche se non si sta parlando di analogie con un racconto filmico, ma con un mondo interiore: ciò che precede e giustifica ogni azione o comportamento. E nell’entrare in contatto con Cal/James Dean riviviamo con Martin lo stupore di provare quello che provò il ragazzino del Queens quando vide il film, il riconoscersi nel vissuto di quel personaggio: “Pensare di fare qualcosa di giusto e scoprire di aver fatto invece qualcosa di sbagliato”. Una lacerante contraddizione che deve aver accompagnato le vite silenziose di tanti adolescenti e la loro disperata, accanita battaglia per essere amati e accettati dalla propria famiglia, lo svelamento di una tragedia dietro lo schematismo manicheo che imprigionava giovani uomini dentro il clichè di ribelli senza causa. Ma tutto ciò, tanto nel linguaggio cinematografico di Kazan quanto nel commento di Scorsese, non si riduce a riflessione sociologica, tutte le potenzialità inespresse di un’età negata e incompresa esplodono nella libertà dell’immagini, della loro capacità di parlare a tanti livelli, di rompere l’isolamento creando un immaginario collettivo e condiviso, di avvolgere nell’arioso abbraccio del Cinemascope tutti quelli che come Cal, vivevano ai margini di un mondo menzognero e ostile.

Quando Cal si addentra nel corridoio buio di un bordello che porta alla stanza della madre creduta morta, quel corridoio, nell‘insistito ritorno delle parole di Scorsese, diventa per Kazan l’equivalente della Porta delle stelle di 2001 per Kubrick o della fumeria d’oppio di C’era una volta in America per Leone: il punto di rottura con una percezione di noi stessi e della realtà, e l’avvicinarsi talmente tanto alla verità da esserne sopraffatti e storditi insieme alla consapevolezza di come la paura crescesse simultaneamente alla necessità di conoscere.

Tutto questo spudorato e sincero amore di cui Martin permea le immagini di Elia esclude riflessioni più storiche e politiche riguardo al coinvolgimento di Kazan durante il terribile periodo del maccartismo. Quando venne istituita dal senatore repubblicano una commissione che indagava su presunti aderenti o simpatizzanti del partito comunista, per poi epurali dai lori posti di lavoro o costringerli all’anonimato, Kazan divenne un delatore e fece dei nomi, e anche questo aspetto controverso non viene però taciuto dall’ammiratore e amico che ricorda la notte degli Oscar 1998, quando l’ormai anziano cineasta, nel ricevere il premio alla carriera proprio dal più giovane collega italoamericano, si trovò di fronte a molte braccia conserte e a volti indignati, a ricordare la distanza tra la grandezza dell’artista e la pusillanimità dell’uomo. Scorsese non omette ma neanche prende posizione, perché sa che non è questo il luogo del giudizio e dell’analisi, e perche il Kazan a cui sta “scrivendo” è quello con cui ha dialogato attraverso i film.
Anche nel suo più personale, sentito e amato America America, storia di un irrequieto giovane greco che fugge dall’intollerante Turchia per raggiungere la terra promessa, non conta indagare tanto sul passato della famiglia Kazan e le sue peripezie per arrivare a New York. Ciò che ancora oggi è vivo ed emozionate sono quei frammenti di cinema, la carrellata di volti lontani e arcaici che incontrano il nuovo mondo, gli scorci della nave dei folli, del viaggio della speranza, dove si sente quel misto di rabbia, voglia di riscatto e disponibilità a sacrificare tutto (il proprio passato) per inseguire l’illusione della libertà. Una libertà che sarebbe rimasta solo l’illusione rivelata dal cinema di Kazan e il controcanto amaro di un paese pieno di prigioni e di limiti. Scorsese ci ha ricordato quanto quel cinema abbia in realtà tentato di spezzare le catene.

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