di Stefano Macera/E’ possibile realizzare un documentario su un argomento di forte interesse politico senza lasciarsi ingabbiare dagli schemi tipici del cinema di denuncia? E’ anche muovendo da una simile domanda che ci siamo confrontati con Tomaso Mannoni, regista di The Wash – La lavatrice, uno dei cinque candidati ai Nastri d’Argento 2019 nella sezione cortometraggi documentari. Un’opera che muove da una situazione emblematica: i membri della famiglia proprietaria di una lavanderia a Capo Teulada, in Sardegna, col tempo si sono ammalati tutti, riportando o un tumore maligno o disfunzioni tiroidee. Probabilmente, queste gravi patologie sono state causate dal contatto con le sostanze tossiche presenti nelle divise dei militari del vicino Poligono Militare della NATO, per i quali la lavanderia ha lavorato per anni. Ma quello che poteva essere esposto nei modi urlati di certo cinema engagé, in The Wash viene restituito attraverso un linguaggio composito, che preferisce l’evocazione alla comunicazione immediata. Per questa via, in soli 20 minuti, le spettatrici e gli spettatori più disponibili possono cogliere molte delle implicazioni di fondo della presenza di una base militare in un territorio. Come a dire che parliamo di una sfida vinta, dietro la quale c’è la consapevolezza estetica maturata in una più che decennale esperienza da documentarista, che ha avuto tra le sue tappe anche realizzazioni più esplicitamente militanti, come il pregevole Fino in fondo (2014), diretto assieme ad Alberto Badas e dedicato agli operai del Sulcis. Riportare le riflessioni di Mannoni ci è sembrato pertanto di particolare utilità, soprattutto nella fase complessa e contraddittoria che stiamo vivendo, che richiede più che mai un cinema che non evada dalla realtà né cerchi di ricondurla a forza entro schemi prestabiliti.

Intanto mi piacerebbe sapere come è nata l’idea di realizzare questo documentario…

Tutto è partito dal racconto di un giornalista che conosco. Invero, i quotidiani e le Tv non si sono affannati a sviscerare questa situazione, ritenendola un po’ scomoda, perciò è stata documentata solo parzialmente. Ma io ne ho ricevuto una versione dettagliata che mi ha subito incuriosito. Quindi ho immediatamente contattato un’associazione che si occupa delle basi militari in Sardegna, cercando, per suo tramite, di raggiungere la famiglia interessata. La quale, però, non ha espresso un’immediata disponibilità, tanto che incontrare le figlie ammalate è risultato impossibile.

Qual è la ragione di questa ritrosia?

Le motivazioni, a mio avviso, sono molteplici. A monte vi è un certo pudore, tipicamente sardo. Poi, va anche detto che, nel caso specifico, la famiglia svolgeva un’attività che forse qualcuno, in paese, non digeriva. Certo, si lavavano le divise dei soldati del Poligono semplicemente per procurarsi le risorse per vivere, ma spesso chi si oppone legittimamente a un’invasiva presenza militare non è disposto a operare queste necessarie distinzioni. Tuttavia, le mie personalissime esperienze mi suggeriscono altro: ricordo che mia madre e le sue due sorelle, negli anni ’70, andavano al mare in un altro posto, il Comune-arcipelago La Maddalena. Qui, proprio in quella fase, arrivarono gli americani e, nell’isola di Santo Stefano, nacque una base per sommergibili a testate nucleari. Tra il 1971 e il 1984, l’area fu di continuo attraversata da sommergibili di quel tipo, con conseguenze letali per la salute collettiva. Tra La Maddalena e Palau, nacquero addirittura bambini anencefali, cioè privi della calotta cranica e dei tessuti connessi. Mia madre e le sue sorelle si sono ammalate di tumore: hanno dovuto subire vari interventi al seno, nonché terapie oncologiche e chemioterapie. Una delle mie zie è poi deceduta, mentre mia madre sta proseguendo questo cammino terapeutico piuttosto complesso. Ora, potrà sembrare strano ma, da parte loro, c’è sempre stato ritegno sia nel denunciare le cose sia nel manifestare il dolore, che infatti è rimasto perlopiù interno. Neanche fossero responsabili del proprio male! Non escludo che sentimenti simili siano stati provati pure dalla famiglia di Capo Teulada. Il che, visto dall’esterno, può sorprendere. Certo, in alcuni momenti, questa ingombrante presenza militare ha forse giovato all’economia locale, visto che per anni migliaia di soldati statunitensi hanno preso in affitto ville e stabili nell’area, pagando fior di dollari. Però gli effetti collaterali sono stati troppi e di assoluta drammaticità.

Dunque, è stato problematico iniziare il documentario…

Sì, ma alla fine ho potuto raggiungere un fratello che, peraltro, non aveva ancora depositato, tramite il suo avvocato, l’esposto alla Procura. Sapendolo, mi sono precipitato a contattare il legale, chiedendogli se potevo riprendere il momento in cui veniva formalizzata la partecipazione a questa importante causa civile e ho ricevuto l’assenso sia da parte sua che dal suo assistito.

Ecco, proprio le immagini relative a questo momento colpiscono molto, perché non danno quel senso di “azione recitata” che riscontriamo spesso nei documentari, quando si concentrano su circostanze simili. Ci puoi dire come le hai realizzate?

E’ presto detto: mi sono servito di tre telecamere, che ho collocato in modo che non risultassero troppo invadenti. E’ per questo che tutto si svolge senza dare il senso dell’artificio e apparendo inoltre chiaro, anzi chiarissimo a chi guarda il documentario. Questa intelligibilità della situazione non viene mai meno anche se, in alcuni casi, intervengono delle dis-inquadrature, ossia dei punti di vista sostanzialmente irregolari che, proprio perché non strettamente funzionali alla narrazione, vogliono segnalare una più generale anomalia. Del resto, che c’è di più anomalo della presenza di una base militare in un paradiso terrestre come il promontorio di Capo Teulada?

Sempre a proposito di scelte registiche: nel documentario hai usato anche l’inquadratura multipla…

Diciamo che ciò rimanda alla volontà di evocare i giochi di guerra, nonché di usare in modo fruttuoso le immagini d’archivio, le uniche di cui mi potevo servire per richiamare le attività del Poligono. Così ho puntato sull’inquadratura multipla, composta da nove schermi, con quello al centro che riguarda il paesino. Indubbiamente si può avvertire un effetto videogioco, che del resto ho perseguito, ma chi vuole può cogliere un senso in più, perché l’immagine del paesino rimane sempre la stessa, mentre negli altri schermi le inquadrature si avvicendano.

Dunque, questa idea nasce da una limitazione…

Esattamente, ma i registi debbono sempre cercare di trarre vantaggio da certi limiti. Magari pescando nella propria memoria visiva, come è accaduto a me: a un certo punto mi è tornato in mente un prestigioso precedente degli anni ’20 del secolo scorso, rappresentato da Napoléon di Abel Gance, che è il vero precursore della pratica dell’inquadratura multipla.

Rimaniamo sul terreno del linguaggio cinematografico. Presentando il documentario alla Casa del Cinema di Roma, il 15 aprile scorso, lo hai collocato all’interno di quella tendenza, detta neosperimentalismo, che viene propugnata dal critico e teorico del cinema Adriano Aprà…

In realtà, ho scoperto di essere affine al neosperimentalismo mentre era già a buon punto con il lavoro, che si è snodato tra il 2017 e il 2018. Io ho conosciuto questa tendenza nell’autunno dello scorso anno, constatando quanto la sua logica coincidesse con quella che stavo portando avanti io, certo senza dargli una sistemazione concettuale. Sì, perché nella definizione neosperimentalismo rientrano sia la realizzazione di audiovisivi a basso costo (che rende liberi dai canoni imposti dalle normali logiche produttive) sia l’uso di forme espressive diverse in una medesima opera, che infatti dovrebbe comprendere una parte documentaristica realizzata “sul campo”, una di messinscena e un’altra basata sulle immagini di archivio. Quando ho scoperto questo movimento, ho subito individuato il suo punto di forza nella libertà espressiva: per chi, come me, si colloca totalmente fuori dai circuiti ufficiali, un siffatto modo di approcciare l’audiovisivo rappresenta una straordinaria occasione per comunicare. Poi c’è il fatto che l’esser prossimi o interni a un movimento ti rende meno solo e ti rafforza ma, a ben vedere il primo aspetto, ossia la libertà creativa, rimane quello che m’interessa di più.

Si può parlare, nel tuo caso, della ricerca di un orizzonte creativo libero non solo dalle costrizioni del cinema commerciale, ma pure dai vincoli del cinema militante, soprattutto se inteso nelle sue forme più canoniche?

Dire di sì: il fatto è che il cinema militante, pur essendo necessario, può a volte risultare stereotipato, soprattutto sul piano espressivo. Io l’ho praticato anche nel recente passato, cercando di immettervi una certa cura formale e di non sacrificare tropo le possibilità del linguaggio filmico alle esigenze della comunicazione immediata. In sede di montaggio dei miei lavori militanti ho provato la soddisfazione tipica di chi sta facendo la cosa giusta. Ma quando ho montato The Wash ho avvertito un appagamento di tipo diverso, dovuto al fatto che stavo esprimendo nel modo più compiuto la mia visione del cinema.

A proposito di visione del cinema: quali sono, attualmente, le tendenze e gli autori che senti più vicini o a cui ti ispiri?

Guarda, io sono interessato a varie esperienze, da cui traggo indicazioni di diverso tipo. In primo luogo, ammiro gli autori iraniani, a partire dal compianto Abbas Kiarostami, soprattutto per il modo in cui tematizzano il rapporto tra cinema e vita. Poi, per quanto attiene alla messinscena, apprezzo molto gli autori rumeni che si sono imposti negli ultimi 10-15 anni, tra i quali Christian Mungiu, Corneliu Poromboiu e Adrian Sitaru. A mio avviso ciò che li rende sorprendenti, per certi versi unici, è la loro capacità di far coesistere dramma e ironia. Andando in aree più nordiche segnalerei Andrea Arnold, una regista inglese che sa restituire con precisione determinati ambienti sociali e naturalmente il finlandese Aki Kaurismäki. Di quest’ultimo mi affascina la spinta a introdurre sempre, nella narrazione, un elemento fiabesco. Il che da un lato lo allontana dal realismo inteso in senso stretto ma dall’altro, paradossalmente, approssima di più il suo cinema alla vita. Nel senso che in molte delle nostre azioni quotidiane, dei nostri gesti apparentemente più banali e sganciati da qualsiasi riflessione, c’è sempre qualcosa che va oltre l’immediata apparenza, quasi un affiorare di quell’elemento d’imponderabilità che attraversa le nostre esistenze.

A ben vedere, anche in The Wash sono presenti queste azioni elementari…

Immagino che tu ti riferisca alla donna che stende i panni lavati nel terrazzo… La questione è che, dal mio punto di vista, i gesti più semplici sono spesso quelli che rivelano maggiormente una condizione umana o sociale.

Bene, non mi rimane che chiederti qual è stata, sinora, la reazione del pubblico a questo tuo documentario così singolare.

A dire il vero, questo lavoro non ha avuto sin qui una grande vicenda distributiva. Tu prima hai citato la proiezione alla Casa del Cinema, nel corso della rassegna Visioni Sarde. In quell’occasione The Wash mi ha dato una grande soddisfazione, riportando il premio del pubblico. In precedenza, due passaggi importanti sono stati quelli di Milano e di Cagliari. Il primo era interno a un Festival del Documentario ed è stato contraddistinto da un certo favore da parte degli intervenuti.

Il contesto fa pensare a un pubblico, per così dire, piuttosto esperto. E a Cagliari come è andata?

In un certo senso, la proiezione di Cagliari può risultare più significativa. Perché il pubblico non era esclusivamente cinefilo ed era composto da persone di diversa età, pur se con una componente di giovanissimi relativamente ridotta. In quell’occasione, il segnale è stato incoraggiante: perché diverse persone, oltre ad apprezzare il mio lavoro, hanno riconosciuto che una storia come quella che ho affrontato può esser raccontata anche così e non solo secondo i codici tipici del cinema di denuncia.

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