Un kolossal taiwanese concorre per il Leone d’Oro alla sessantottesima Mostra del Cinema di Venezia. Figura, tra i nomi di spicco della produzione, quello di John Woo, fiore all’occhiello di un’operazione gigantesca e ambiziosa, che affida a Wei Te-Sheng il compito di raccontare la rivolta suicida delle ultime tribù aborigene dell’isola di Taiwan, dopo il trattato di Shimonoseki, nel 1895, quando il territorio divenne dominio dell’impero giapponese. Nel tentativo di rispondere con le armi dello spettacolo agli sguardi occidentali sulla Storia e la cultura d’Oriente, come è  accaduto, ad esempio, per L’Ultimo Samurai di Edward Zwick , Saideke Balai, il cui titolo per il mercato internazionale sarà The warriors of the rainbows, cerca di restituire un’immagine antieroica e demistificata del guerriero ribelle, sottolineandone costantemente la natura violenta, per poi indugiare, altrettanto di frequente, sul suo attaccamento alle tradizioni e sul valore della religione per il clan di appartenenza.

taiwan john woo warriors of the rainbow

Dopo un incipit che consacra la nascita di Mouna Rudo come capo di una tribù, l’azione riprende con un’ellisse di tre decenni di dittatura nipponica, quando i tempi sembrano ormai maturi per organizzare la resistenza al regime, dato il troppo lungo periodo di soprusi, vessazioni e disumane ingiustizie. Mouna riesce a far coalizzare quasi tutti i gruppi indigeni sottomessi e accende la miccia di una rivolta destinata a culminare in un bagno di sangue.
Lo scheletro, questo, di un intreccio prevedibile e ripetitivo che, ispirandosi  a fatti realmente accaduti, finisce col concedere uno spazio spropositato alla battaglia decisiva, messa in scena di una carneficina intollerabile a base di infanticidi, suicidi, squartamenti e decapitazioni a colpi di machete. Il distacco emotivo dalla vicenda, provocato dalla continua sottolineatura degli aspetti negativi dei “buoni”, oltre che da una eccessiva stereotipizzazione dei personaggi, rende poi impalpabile, e in ultima analisi decisamente estetizzante, l’epicizzazione di alcuni momenti del racconto evidenziati dall’uso dei ralenty e da un commento musicale altisonante e retorico. Come pure appaiono inadeguate e posticce, perché in distonia con il fondo di verità storica da cui si parte, certe soluzioni visive affidate a effetti speciali in alcuni casi addirittura imbarazzanti.
La prima megaproduzione di Taiwan perde dunque ai punti il primo match dell’ipotetica sfida, postulata all’inizio, lanciata ai  titanici blockbuster di Hollywood. Aspettando magari John Woo, ci chiediamo il perché dell’inclusione di questo film nella selezione ufficiale.

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