C’era una volta l’umanità verrebbe da sottotitolare questo ennesimo film post-.

Nello shopping center di Tokyo, come altrove, l’umanità è in via di illuminatissima estinzione, per eccesso di autoconsumo scandito da azioni e stati sensoriali sempre più automatizzati: sono metalliche segreterie telefoniche a ritmare i gesti e i pensieri dei due protagonisti.

Del resto, a propiziare il loro incontro è un lenone che si muove tra i tavoli del suo affumicato bar con la calcolata solerzia di un capoufficio. Le scene si dipanano tra inquadrature angolari e ristrette, non vi rientrano tutti i personaggi in azione, perché non hanno relazioni vive l’uno con l’altro: un dialogo può ben finire fuori obiettivo, ciascuno ha per lo più una relazione autistica con un’imposta funzione specifica.

Così la studentessa di sociologia, proveniente da un villaggio di provincia e come molti costretta a vendersi per pagare gli studi, la sentiamo recitare imbarazzate bugie mentre il fidanzato cerca di esercitare, via cellulare, una forma di controllo paranoico sui suoi movimenti. E quando il capoufficio le assegna un incarico fuori sede, per un cliente speciale, al suo rifiuto strozzato nell’urlo isterico e subito censurato dal silenzio degli altri impiegati ai tavoli-desk del bar, quello, barista-lenone, assorbe il colpo continuando imperturbato il suo costumer calling service al di là del vetro. Mentre si sposta noi vediamo il suo ventre incamiciato di bianco riflettersi sulla vetrina e inglobare la silhouette delle due entreneuses alle sue dipendenze e preoccupate delle conseguenze occupazionali dell’eventuale, ma ritrattabile, rifiuto.

Si parte allora, controvoglia, su un taxi a giro in una città satura, tra luminarie che si affastellano sul volto di Akiko in ascolto robotico dei messaggi depositatisi da ore nella sua segreteria telefonica: una vocina pacata e affettuosa, è sua nonna, le annuncia un’inattesa visita dalla campagna, e in successive registrazioni la stessa vocina, tremula e ora meno fiduciosa (sta da qualche parte osservando un manifesto che offre i servizi di compagnia di una giovane, ma non crede che quel volto sul numero telefonico sia poi così somigliante alla sua morigerata nipotina) propone un ultimo appuntamento, prima del rientro obbligato, presso la statua di fronte all’ingresso della stazione centrale. Akiko fa deviare il taxi, per compiere due giri nel traffico incendiato di luci intorno alla statua. Non ha tempo di scendere, abbracciare la vecchina e commuoversi (il cliente attende), ma osserva la nonna da dietro il vetro, sotto quella statua ingrigita che rappresenta il mondo degli avi e il mondo di ieri. E in quella solitudine grigia della nonna coi bagagli ai piedi nel traffico senza requie, ci pare rivedere la vecchina in resistente lotta con una moderna campana dei rifiuti, nella trilogia di Kieslowski.

Il contrasto tradizione/modernità, declinato in termini più parodici che drammatici, è un po’ il tema portante della storia e dell’incontro tra i due protagonisti. Il cliente che aspetta Akiko in un quartiere residenziale fuori dal centro di Tokyo, è un professore universitario in pensione, un conservatore e trasmettitore di sapere. Vive tra pareti occupate dai libri, e per lo più traduce le diverse tradizioni linguistiche, ma nell’escort che ha richiesto a cena (al suo arrivo non si cura più della sua fax-segreteria sciorinante appuntamenti e richieste), ritrova una slavata metamorfosi delle sue allieve di un tempo.

La giovane sociologa, che dovrebbe, più che sbattersi, preparare a notte fonda l’esame per evitare di confondere Durkheim con Darwin, ha invece paura della carta dei libri, nella sua vita la memoria scritta è diventata per lo più un’immagine digitale, una copia senza spessore e durata. E forse con questi occhi osserva alla parete la riproduzione di un quadro notorio della storia dell’arte giapponese: il soggetto è tradizionale, una giovane dama insegna a parlare ad un pappagallo, ma lo stile è modernista e post-impressionista, dinamizzante, europeo.

Tutto ciò illustra il professore-cliente alla studentessa-escort, cui al villaggio avevano donato copia di quel quadro, spacciandogliela però per un ritratto delle sua bellezza adolescenziale. La rivediamo allora, nell’intimo, sdoppiarsi tra due immagini di sé stessa, il flyer che pubblicizza i suoi sevizi, e lo pseudo-ritratto in costume tradizionale. Ma ecco il suo parodico colpo di genio ermeneutico, modernista: forse, si sbilancia con l’attonito cliente-professore, è il pappagallo ad impartire la lezione di lingua alla fanciulla, non viceversa. Così lei aveva voluto e vorrebbe tuttora credere. Lui è attonito, ma lascia dire, sopraffatto da questa livellante epoché. Lei può rilassarsi, denudarsi… e dormire.

I due personaggi che ruotano intorno all’incontro dei due notturni amanti fanno da complemento a questo gioco di spersonalizzanti equivoci. Uno è il fidanzato ossessionato dal controllo, certo un figlio del suo tempo: ha dovuto lasciare gli studi ed aprire un’autofficina per adattarsi al regime di vita di una città “giungla” come Tokyo. Ma cerca una disperata forma di reazione nel tradizionalismo, fino a voler credere che il vecchio più che un bavoso sia il nonno premuroso e protettivo cui affidare le proprie ansie. Se sposerà Akiko, gli confessa, riuscirà a proteggerla, a imbrigliarla, e lei finalmente risponderà alle sue domande e sederà i suoi angosciosi dubbi.

L’altro è la vicina di casa del professore, a cui, nella sua prima comparsa, intima, per esigenze di ragionevole quanto nevrotico buon vicinato, di parcheggiare il Suv con precisione millimetrica, così come nell’autofficina del geloso fidanzato le tante auto dei clienti vengono fatte incolonnare per evidenti motivi di ergonomia. Ebbene, questa vecchina stridula, nella situazione a due con Akiko, durante la quale la vediamo sbucare di nuovo da una finestrella come i genitori in Finale di partita fuoriescono da lattine e scatole di biscotti affettuosi, a sua volta si confessa. Per tutta la vita ha sognato di poter coronare il suo sogno d’amore con il professore di cui è diventata una sorta di appendice nel quartiere. Il suo sfogo è tutto da seguire. Se ne sarà mai accorto l’arzillo pensionato?

Anche lui, che il richiamo della vita e dell’amore sa alimentare solo attraverso un moderno e discreto servizio di escort, appare sbiadito recitante di un’umanità consunta e automatizzata, rifluita e liquidatasi nell’al di qua dal bene e dal male della sua quotidiana sopravvivenza. È indispensabile capire se l’abbia solo sfiorato, oppure colpito, o addirittura ucciso, il sasso scagliato dal fidanzato geloso per infrangere il vetro del suo studio dopo le minacce urlate al citofono? Il suo corpo cade e finisce fuori obiettivo, ma certo infranto è quel vetro che ha fatto da schermo, come altri nel film, a tante immagini in cui si è scomposta la persona dei diversi personaggi di questa banalissima storia di autoconsumo quotidiano. Scorrono i titoli di coda.

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