“Tutto obbedisce a quell’esubero o eccesso di vita che negli esseri coscienti chiamiamo estasi – afferma, con indubbia potenza espressiva, il filosofo americano Ralph Waldo Emerson davanti a un uditorio di giovani studenti, e non lontanto da quanto invocato dal poeta Whitman, altro grande cantore del vitalismo americano dell”800 – C’è una vita che non possiamo descrivere che possedendola”.

Il desiderio di grandezza, pur nobile, nella visione psicoanalitica europea appare, invece, come qualcosa di pericolosamente onnipotente, riassumibile grosso modo nella seguente domanda: quanti danni fa la pienezza di vita, che affascina e manipola, se associata alla strategia di potere? E il bisogno di un padre-Dio onnipotente a cui obbedire e contro cui lottare (che è anche il conflitto ambivalente con la legge) per affermare la propria alterità e, con essa, il senso del limite? E poi, ancora, la nostalgia per una madre sempre distante, sempre perduta, che ci porta a desiderarla negli altri in una disperata ricerca dell’originaria empatia fusionale? Ovvero la grande madre puritana che controlla, punisce e incita a una crudele presa del potere (Peggy sembra una Lady Macbeth più provinciale) e che incarna (nella sua indifferenza e imperturbabilità fisica) l’ipocrisia delle pratiche maccartiste, in un capovolgimento di ruoli che ci mostra come il debole può diventare il peggiore dei carnefici? E infine – ma potrebbe collocarsi al principio: cosa dire della teoria (antropologica, psicologica, filosofica, politica) che per imporsi, sedurre e infine addomesticare si nutre visceralmente dell’animalità sessuata del selvaggio e della fragilità emotiva del reduce di guerra che è anche eccesso di energia e magnetismo ricattatorio? La manipolazione del padre onnipotente, di conseguenza, viene praticata con metodi persuasivi spettacolari che rimandano al sistema dei media: il “riesci a ricordare?”, presente nel primo libro di Lancaster Dodd (il maestro), nel secondo  libro diventa “riesci a immaginare?” (ossia dall’inconscio all’immaginario, come dire un cambio di paradigma allo stesso tempo politico e ontologicamente cinematografico).

In questo senso, il vitalismo viene rappresentato in tutta la sua contraddizione, ossia come una forza che avvince i corpi e le menti, in quanto espressione costitutiva della parabola umana, ma allo stesso tempo anche come un metodo che sembra nutrirsi dell’aggressività fondativa di civiltà nate su brutali massacri. Il vitalismo che insieme all’empatia manipolatoria di guru e mass media diventa onnipotenza divina e imperialismo politico – l’improvvisazione e l’empatia (apparente libertà d’espressione) servono magnificamente “la causa” manipolatoria e imperialista statunitense: il legaccio che tiene insieme la teoria con l’estasi, l’animalità, i desideri, i sentimenti e le emozioni, è ciò che rende vera, accettabile e incarnabile la medesima teoria. La si vive sulla pelle, non la si subisce e basta. E’ solo questo eccesso vitale, insomma, che rende la manipolazione “degna di essere vissuta”, perché nell’improvvisazione, sempre presente nell’eccesso umano, il soggetto comunque ha un suo spazio libero di azione. E poi, infine, la violenta e pulsante, a tratti struggente, storia d’amore tra i due uomini, Lancaster e Freddie, che hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere pienamente, che sentono come ci sia il dolore dietro ogni atto di amore, che si inventano palloni aereostatici per superare i blocchi di comunicazione imposti dalle ordinarie strategie di guerra.

C’è questo e molto altro in The Master, film-mostro per l’enorme quantità di senso che sembra veicolare. Dove lo stile, volontariamente in bilico tra geometrie, con cui costruire e controllare personaggi e temi, e improvvisazioni, con cui riconsegnarci la libertà e l’ innato vitalismo umano, coniuga classicismo, anarchia sperimentale ed eccentricità postmoderne. Dove gli strappi e i vuoti narrativi, che a prima vista potrebbero azzoppare lo sviluppo dei personaggi, in questa prospettiva sembrano invece derivare da precise scelte registiche, per lo più interessate a marcare l’aspetto simbolico e speculativo del film. In un andamento jazz che si muove come appropriandosi e poi rovesciando (per la parte necessaria a svelarne i rischi) la debordante ed empatica umanità di Cassavetes, Anderson, nella scena magistrale di addomesticazione di Freddie, in cui Dodd gli impone un programma non privo di massicce dosi di fisicità e vaporosi spettacoli collettivi, ci mostra, in una durata quasi reale, come si rinchiude un animale dentro una gabbia. E se lo stile, come già detto, viene mutuato dall’improvvisazione cassavetiana, ma da essa si allontana per la visione più pessimistica – Geena Rowlands in Una moglie attraversa, sì, con intensità l’inferno, fisico e psichico, ma nondimeno per miracolosamente ritrovarsi – il senso è invece più vicino a quello di Arancia meccanica, laddove Kubrick sembra essere il vero maestro di Anderson). Quella di Anderson, quindi, non è una descrizione narrativa, bensì più una trascrizione, dove gli elementi illustrativi, i dettagli narrativi e naturalistici vengono tendenzialmente eliminati a favore di una visione evocativa e simbolica (ad esempio il ritrovamento pionieristico del libro, la telefonata dentro il cinema, i seni di sabbia con dietro il mare in cui Freddie nasconde la testa come per placare la nostalgia o riposarsi dal dolore) la quale si avvale di un uso dello spazio spesso astrattamente indeterminato (dove i personaggi diventano figure assolute) e ossessivo (come in un sogno). E rispetto a quest’ultimo aspetto, è significativo come alcune scene siano più che altro delle visioni, delle immagini mentali che i due protagonisti si proiettano a vicenda, come quando Freddie vede nude tutte le donne presenti allo show di un Lancaster sempre meno controllato: Dodd, The Master, vorrebbe possedere carnalmente tutte le donne che sta manipolando (e dunque anche seducendo), ma è solo Freddie, con il suo candore e la sua animalità indocile, che gli dà il coraggio di poterlo desiderare (non solo pensare) veramente, in tal modo donandogli (ma Lancaster è comunque lì a rubargliela) l’energia carismatica con cui poter attuare pienamente lo spettacolo. Il discepolo Freddie, cui la soggettiva appartiene, vorrebbe infatti essere il maestro per poter “scoparsele tutte”.

Salvo poi il fatto che“la Causa” finisca per cozzare contro l’irriducibilità del discepolo al “programma”, in una scena meravigliosa nella quale Freddie, eccitato dalla velocità, fugge via in motocicletta oltre l’orizzonte, oltre il limite disegnato da Lancaster, al quale non rimane che vedere una sagoma sempre più stilizzata in lontananza stagliata su un paesaggio che sfocandosi diventa lo spazio astratto dell’illusione. Ed è proprio in questo spazio incolmabile alla manipolazione, e quindi alla dipendenza, che il desiderio e la tensione sessuale ed esistenziale tra i due uomini rimangono vivi.

Salvo, infine, “la Causa” essere costretta all’esilio dorato quando la med
esima si pone in concorrenza con le istituzioni sociali.

Rimane l’interrogativo se la libertà, che quest’opera indica come utopia e come limite, resti tale solo in una prospettiva che vede l’uomo non abdicare completamente alla propria natura animale.

E in effetti dopo la seconda visione del film, opportunamente esperita nella versione originale anche al fine di evitare lo spiacevole appiattimento delle voci, e quindi anche dei corpi, nell’artificiosa e indistinta prossimità dello schermo allo spettatore, raggiungere la pizzeria a Trastevere è stato un po’ un boogie a passo di scimmia.

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3 commenti su “The Master e le contraddizioni del vitalismo americano

  1. Alessia, sei mitica. Tra i premi per le recensioni hai vinto l’oscar per “The master”.

  2. Giuro, Alessia, vedrò il film e poi ri-leggerò la tua recensione. Sono riuscita ad ascoltare poche parole mentre leggevo velocemente ma ho visto di più: la descrizione di un quadro visionario, un’anteprima da brivido!

  3. cara Alessia, molto interessanti gli spunti che individui in un film che, a mio parere, ha però molti buchi neri in tante parti. non è che il suo limite risiede nello stesso rapporto poco riuscito tra i due protagonisti? oscuro e ambivalente per noi spettatori e mai fino in fondo coraggioso nel chiarire azioni e disper-azioni?

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