di Federico Vignali/ In questa prima metà del 2019 il ritorno di Jonathan Franzen non può passare inosservato.
Il suo nuovo libro del resto si fa largo in modo più che autorevole tra più generi letterari e conferma – ancora una volta – lo stato di grande ispirazione di un talento capace di esprimere una pulizia nella forma accecante ed elementi di critica sociale decisamente complessi.
Se nel suo pessimismo di fondo l’autore de Le Correzioni continua anche qui a dare spessore ad un personalissimo
pantheon interiore fatto di buone pratiche ecologiche e forme di dissenso epigrafico a Trump, con Mars Room Rachel Kushner soffoca di colpo ogni nostra ultima e residua illusione di poter ancora protendere verso il bene.
In una narrazione spietata e paurosamente viscerale la scrittrice statunitense ci riporta infatti al livello sensoriale delle pulsioni più urgenti e insopprimibili.
Prima di opporsi al consumismo più ottuso o all’ala più radicale del partito repubblicano – pratica che comunque la Kushner sottintende sin dalle prime pagine – esistono delle battaglie intime e laceranti molto più dure da portare alla luce.

Mars Room è proprio il racconto della privazione degli ultimi rantoli della nostra libertà, dopo che si è svenduto tutto il resto in una degradazione sciatta e irreversibile.
Romy Hall è una spogliarellista bianca in una San Francisco rapace e distante anni luce da quella che lottava per i diritti civili negli anni ’70 o di quella di Rebecca Solnit.
Per sfuggire allo stalker che perseguitava lei e il figlio si ritrova ingiustamente in carcere duro a scontare un ergastolo con altre decine di donne totalmente disumanizzate.
Immergersi nella loro detenzione è allo stesso tempo l’analisi di un processo di annullamento fisico e l’epica di un attaccamento alla vita lacerante.
Nei numerosi flash back del romanzo, la protagonista si aggrappa disperatamente ai suoi ricordi non mostrando mai però nessun rimorso per i paurosi espedienti e le violenze a cui era sempre costretta fuori. Come se fosse assuefatta all’idea che per una donna della sua classe sociale non ci siano molte alternative ad un destino di sfruttamento e abusi.

In questo senso fare un paragone con le ragazze più colte e benestanti che leggono il Newyorker di cui scrive spesso la Roupenian lascia un quadro complessivo degli Stati Uniti davvero desolante. Se le protagoniste di Cat Person infatti sono isolate in un mondo virtuale e autoreferenziale di chat e nevrosi, quelle di cui narra Mars Room sono abbandonate in una sopravvivenza sempre al limite.
Settant’anni fa quando Orwell parlava di prolet in 1984 già non nutriva molta speranza nei processi di presa di coscienza degli ambienti più disagiati.
Qui la Kushner fa un quadro di una generazione ancora più disorientato e stordito di quello della Egan in Il Tempo è un bastardo.
Paradossalmente, la perdita dei punti di riferimento assume un realismo tanto più crudo e d’impatto tanto più il linguaggio con cui ci scuote l’autrice, già apprezzata per I Lanciafiamme, è estasiante, profondo e viscerale.
Nei momenti in cui il racconto adotta brevemente il punto di vista dei maschi si toccano forse le parti più allucinanti e glaciali.
La Kushner riesce a farci regredire in modo così realista nel flusso di pensieri stentato e minimale dello stalker, che, nella loro depravazione e patologicità – paradossalmente – certe manie di possesso sembrano avere anche una specie di determinismo lineare e inscalfibile.
In un altro romanzo sul carcere che abbiamo amato come Buio a mezzogiorno di Koestler c’era un’insieme di spunti e riflessioni sul rapporto tra ideologia, ortodossia e verità illuminante.
Qui in Mars Room c’è un’analisi di fondo sul nulla che siamo diventati e che portiamo dentro dirimente.
Le pagine che ci fanno capire dov’è la soglia oltre la quale siamo niente e quella dove siamo ancora vivi sono indimenticabili.

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