Felice Lasco scende dall’aereo che dal Cairo lo riporta a Napoli dopo 40 anni e attraversa per tutta la sera la città che da ragazzo era stata sua e che ora percorre privo di una mappa. Inizialmente stranito, come in trance – o come in preda all’effetto che potrei avere se una mattina allo specchio incontrassi il mio volto senza riconoscerlo –, con l’avanzare della notte e con l’avvicinarsi alle strade di quello che un tempo era il suo quartiere, Felice comincia ad ambientarsi. Testimoniano il suo passaggio dei campi prevalentemente larghi, che collocano il corpo di Pierfrancesco Favino dentro la città senza precauzioni o cerimonie: lo inquadrano come una figura nel paesaggio. Non possiamo esserne sicuri ma scommetteremmo sull’assenza di un set a fare da filtro tra lui e la città: i ciak sembrano rubati nella calca serale napoletana, i passanti non figuranti ma comuni abitanti impegnati nelle loro faccende. E intanto Felice/Favino è arrivato davanti al portone di quella che un tempo era la sua casa.

Sono i primi minuti di Nostalgia, che subito prendono al cuore perché rinnovano un’antica promessa del cinema di Martone: quella di una camera che si pone con lo spazio urbano in una relazione pienamente generativa, aperta e sperimentale, non predeterminata e condizionata da un contenitore pre-fabbricato (il Teatro in Qui rido io e Il sindaco del Rione Sanità; la Storia in Noi credevamo e Il giovane favoloso); Favino è ora a Napoli. Questa disposizione al reale ci ingaggia da subito in una relazione di verità col film e col personaggio tale per cui, per tornare su, quando la mattina dopo Felice torna davanti a quel portone, poi sale le scale e infine giunto all’uscio si stringe in un abbraccio con l’anziana e minutissima madre, quell’abbraccio trapassa dallo schermo – con l’intensità con cui riemerge un affetto perduto.

Dunque davvero “nostalgia”? Siamo davvero dalle parti di quel “desiderio di tornare in un luogo che ci è stato caro”, dalle parti di quel sentimento idealizzante che nel vagheggiare l’idillio perduto ci intorpidisce e ci inibisce la progressione? La domanda sorge lecita, a maggior ragione qualche minuto dopo quando, durante un ulteriore attraversamento urbano del protagonista, il film utilizza il flashback (strumento per eccellenza della nostalgia al cinema) per mostrare un Felice giovanissimo e spensierato, in compagnia dell’inseparabile Oreste, attraversare 40 anni prima le stesse strade in motocicletta e poi tuffarsi nel mare.

Ma se andiamo un po’ più avanti, ci accorgiamo che la ricongiunzione idilliaca tra un presente di riscoperta e un passato-flashback di purezza è radicalmente messa in crisi. Nel presente Felice conosce presto l’insicurezza di un urbano feroce e violento. La malavita aggredisce e taglieggia nei vicoli, Felice in prima persona assiste con occhi sbarrati a una stesa, ogni passo notturno ha la cifra del pericolo. C’è una visceralità e una progressiva asprezza che Martone mette in campo nella rappresentazione della città; una spiacevolezza della strada, tanto nota a chi conosce la città ma anche così poco presente nelle sue rappresentazioni recenti, quasi sempre sospese tra gomorrismo e oleografia (e infatti non a caso la memoria corre fino a Pianese Nunzio, 1997, capolavoro di Capuano girato precisamente nelle stesse vie della Sanità).

Ma è intanto dal passato che riemerge la scena più terribile e brutale, anche perché fondativa. Il giovane Felice è stato appena picchiato dalla paranza di un altro quartiere, Oreste accorre e lo vendica selvaggiamente. Martone filma con camera fissa e stando a distanza: la violenza si imprime per la prima volta negli occhi di Felice.

Ecco la crepatura: se inquadrata (e ricordata) sinceramente, Napoli si ribella e impedisce l’idealizzazione. Altro che nostalgia: la città voracemente coniuga il presente, il tempo dell’esperienza, e obbliga chiunque furiosamente a farci i conti. Felice e il suo alter ego Oreste hanno certamente i tratti dell’eroe e dell’antieroe tragici; ma questo non basta per innalzarli, essi non si muovono fuori dalla Storia, bensì in uno spazio e in un tempo che riservano ai figli degli uomini terrenità e spietatezza. Martone lo sa, Ermanno Rea prima di lui.

Così fino al finale, quando la parola NOSTALGIA compare, impietosa e antifrastica, sull’immagine che sigilla la sua impronunciabilità.

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