Non sono riuscito a toccare il nucleo centrale del film: la figlia genera la madre”: Così diceva Ingmar Bergman a proposito di Sinfonia d’autunno, dramma feroce e struggente sul confronto tra una madre assente e narcisista, e una figlia vittima e passivo aggressiva, e sull’ (im)possibile ricerca di un punto di contatto, per poter trasformare quell’arena di rimproveri e manipolazioni nel soddisfacimento di un bisogno e non nell’esasperazione di una nevrosi. Bergman non era rimasto soddisfatto del risultato , visto che voleva arrivare a un capovolgimento totale della prospettiva in cui sono l’empatia, l’umanità e il sentimento profondo, spirituale, della figlia a far rinascere la madre, acclamata pianista tutta concentrata sulla propria realizzazione, dentro uno spazio d’amore e condivisione più autentico: siamo continuamente generati dallo sguardo dell’altro, qui nello specifico della relazione con chi ci da e a cui diamo la vita. Visto che lo stesso Bergman considerava questo concetto troppo ostico e poco chiaro, se ne può dare solo un’interpretazione; di certo c’è il suo tentativo di spostare l’aspetto dal dato biologico al significato simbolico ( l’atto del generare come forma d’amore radicale e gratuita).

In fondo anche Le pere, la piecé teatrale del drammaturgo e regista parigino Florian Zeller, ruota intorno allo stesso nucleo, la limpidezza e insieme il mistero del legame genitore-figlio, e torna a ribadirlo in questa versione cinematografica inglese, The Father , che lo stesso Zellere ha adattato, insieme a Christopher Hampton, e diretto. L’assunto drammaturgico in questo caso è molto differente dalla sonata bergmaniana e ne rovescia la prospettiva: qui il “debole” è un signore ottantenne che sta per essere inghiottito dalla voragine senza fondo dell’Alzheimer, la malattia della memoria e dello spazio, all’interno della quale si annulla la linearità e la consequenzialità, per rimanere intrappolati in una circolarità regressiva e nella sovrapposizione di avvenimenti, luoghi, persone, senza più la facoltà di distinguere e scegliere; di lui si prende cura, con il carico di potere e di responsabilità che questo implica, la figlia, la quale , prima che il padre precipiti nel buco nero dell’oblio, vuole assicurargli la migliore condizione di accudimento possibile e poi andare avanti con i suoi progetti di donna al passaggio della mezza età. Se dunque Ingrid Bergman / madre e Liv Ullman/ figlia nel film di Bergman provavano, tra incomprensioni e rimorsi, ad avvicinarsi dopo una lontananza lunga tutta una vita, Anthony Hopkins e Olivia Colman sono un padre e figlia che si preparano a separarsi ma con un’ asimmetria insanabile: Anthony, che si chiama come l’attore che lo interpreta, a causa dell’Alzheimer sta implodendo in una dimensione dove il distacco, la non presenza e il non contenimento da parte delle persone amate rendono più acuta la confusione , e più impellente la necessità di andare verso un abbraccio, con la conseguente , enorme frustrazione di scoprirlo ridotto ad una proiezione, un inganno, una mistificazione.

E la volontà di Zeller di assumere per tutto il racconto il punto di vista di Anthony e restituirne la soggettiva ricostruzione dei fatti come un puzzle che viene continuamente smontato e ricostruito, nonostante la sensazione a tratti di un artificio tecnico ( appassionante, ma troppo orizzontale, a discapito di una reale profondità) può dirsi compiuta anche con i codici linguistici del cinema. Il montaggio in particolare conferisce dinamicità alla regia naturalista di impianto volutamente teatrale e ci pone davanti al progressivo slittamento percettivo di Anthony , tra ciò che è riconoscibile, familiare e rassicurante e quello che è estraneo ,sconosciuto e terrificante. Anche qui c’è una progressione , perché cominciamo dall’osservazione di una situazione basica ( Anne, la figlia, che va a trovare Anthony a casa sua per comunicargli che gli ha trovato una nuova badante e che presto lei partirà per Parigi) per arrivare a non comprendere più se la stanza da letto appartiene alla casa di Anthony o a quella di Anne, se è mattina o notte, se è oggi o domani, fino al punto di non distinguere chi è chi e le cose che sta dicendo. Come in un canone inverso , restando nel campo delle metafore musicali, se Bergman sgretolava l’ego della sua madre/matrona/narcisa sotto l’assedio implacabile dei ricordi dolorosi della figlia, Zeller lavora sull’attitudine del cinema di scolpire il tempo , come sosteneva Tarkovskij, non per cristallizzare e rendere eterno un momento pur in un costante flusso ( dallo stato del ricordo all’atto della memoria se volessimo citare Morando Morandini su Hiroshima, non amour e Margherite Duras) , bensì sottrarre e asciugare fino all’osso.

L’innesto del meccanismo da thriller psicologico richiama un po i labirinti mentali di alcuni personaggi di Roman Polanski affetti dal morbo dell’alienazione e della rimozione, come la Rosemary incinta, vittima di un complotto satanico ordito dal marito ferocemente ambizioso in complicità con il vicinato di anziani petulanti legati a doppio filo con il demonio, sui cui lei forse proietta in realtà tutte le angosce e le paranoie di una maternità inconsciamente rifiutata; anche Anthony visualizza i fantasmi delle sue paure , come un’altra figlia morta in un incidente stradale o l’aggressività del presunto marito di Anne o ancora più concretamente l’essere privato della sua abitazione, la perdita dei punti polari per orientarsi, senza più una direzione o un obiettivo, ma almeno per la semplice, elementare percezione di esistere.L’attenzione ai dettagli, ai particolari quotidiani ,anche questa di matrice polanskiana, diventa dunque lo strumento per il protagonista(e lo spettatore) di rimanere ancorato a quella realtà circoscritta e precisa: il pollo preparato per cena, la voce di Anne che lo chiama per colazione, il bambino che vede giocare dalla finestra della sua camera ( in Rosemary’s baby Mia Farrow si attaccava al dolore delle contrazioni per convincersi che non stava impazzendo).C’è inoltre un surplus , incontrovertibile , che permette a The father di sfondare la quarta parete dell’emozione costruita o indotta, ed approdare a una verità spudoratamente parziale e umana: alcuni primi piani di silenzi pieni di vibrazioni del mattatore sir Anthony Hopkins, volto raggrinzito e infantile tra stupore e disillusione; sembra di percepirlo quel tempo di reazione più immediato quando nel film lo chiamano come il personaggio che ha il suo stesso nome , ad aumentare l’autenticità della recitazione e un’identificazione non specificamente biografica, ma legata a un sentimento, un momento di vita.Stanley Kubrick sosteneva ad esempio che il fatto che il piccolo attore di Shining si chiamasse nella realtà Danny come il ruolo da lui interpretato avesse contribuito ad una performance più spontanea , una coincidenza che vale sicuramente nel caso di un’esordiente, oltretutto bambino, ma che rimane una suggestione affascinante per un esperto super professionista nell’autunno della sua carriera, quasi il recupero di un’innocenza dell’interazione; al suo cospetto , sommessa ma non intimidita, Olivia Colman, capace di essere magniloquente e grottesca (La favorita) mostra qui la sua piccola faccia di ordinaria, comune donna alla prese con la scelta tra ricordare e vivere, un po come la sua epigona d’oltreoceano ,Frances McDormand, in Nomadland.

E quando il contro campo della realtà dirama la nebbia di una percezione fallata giungiamo al nucleo che cercava Bergman: un padre tornato figlio che si lascia cullare e accompagnare dalle braccia di una figlia diventata madre (anche per l’interposta persona di un’infermiera) su una finestra che ha un nuovo panorama, l’incipit di un ritorno struggente, come l’immagine di chi prende per mano il padre smarrito e singhiozzante. E questa volta lo fa come se fosse il proprio bambino interiore, partorito nella placenta della tenerezza e della compassione.

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