“I viandanti vanno in cerca di ospitalità, nei villaggi assolati e nei bassifondi dell’immensità.E si addormentano sopra i guanciali della terra”

Gia solo questi versi della canzone Nomadi, scritta dal monaco/ cantautore Juri Camisasca e resa celebre dalle interpretazioni di Franco Battiato, Alice e Giuni Russo, sono sufficienti a trasfigurare la scelta archetipica di chi vive in maniera non stanziale su un piano spirituale e filosofico. In realtà sappiamo che storicamente il nomadismo si era sviluppato come fenomeno antropologico, legato all’ economia delle popolazioni pre- neolitiche , fondata sulla stagionalità dei prodotti della terra e sugli spostamenti degli animali migratori da caccia (prima della nascita dell’agricoltura e dell’allevamento).Sarà poi la nascita della religione ad introdurre la figura del viaggiatore, del pellegrino , di colui che va alla ricerca , attraverso l’esperienza fisica del cammino , della presenza di Dio,o comunque di un’entità superiore e trascendente, dentro e fuori di sé, cosi da poter trovare un senso (talvolta in maniera consolatoria e altre in una forma più sofferta e problematica) al passaggio temporaneo su questa terra. Ecco, Nomadland di Chloe Zhao , che parte da un ossimoro fin dal titolo ( ovvero la terra dei nomadi) sembra voler contenere entrambe queste istanze , ovvero la mistico-contemplativa e la socio-politica: l’origine sta infatti in un libro inchiesta della giornalista Jessica Bruder dall’omonimo titolo, in cui ha documentato la vita di molti americani appartenenti alla middle class , rimasti disoccupati nel post crack finanziario di metà anni 2000 e costretti a praticare il nomadismo su camper e roulotte a causa dell’ impossibilità di pagare l’affitto o il mutuo di una casa, e della necessità di dover cambiare in continuazione lavoro. Un’inchiesta sul campo, un’immersione totale in quel contesto,visto che la Bruner stessa ha vissuto per tre anni su un camper, percorrendo oltre 15,000 miglia dal Messico fino al confine con il Canada.

Nella scenaggiatura della stessa Zhao da cui è tratto  il film la sua figura guida è parafrasata dal personaggio di Fren, una donna sopravvissuta alla perdita del lavoro e alla morte del marito, che non si limita a subire la consequenzialità degli eventi , ma sceglie con determinazione e rigore la vita nomade come forma di resistenza e autonomia ad un mondo a cui sente di non appartenere più. Ora Fren, cinematograficamente parlando, possiede una dimensione che esiste ancora prima del modo in cui la Zhao la filma e che si offre alla mdp della regista cinese con la portata del “racconto di uno che si fa racconto di tutta l’umanità”, come diceva Giorgio Strehler a proposito del teatro: a interpretarla infatti è Frances McDormand che ha fatto dell’intuito (la saggia  poliziotta incinta di Fargo) e della tenacia ( l’implacabile madre che vuole giustizia per lo stupro e l’omicidio della figlia di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, solo per citare i suoi due iconici ruoli da Oscar) le categorie attraverso le quali restituisce uno sguardo lucido ed emozionante sul caos incomprensibile che ci circonda.

In questo caso ha trovato un’ulteriore essenzialità del gesto e della parola, visto che durante questo viaggio si mette prevalentemente in una posizione di ascolto e ricezione delle storie delle persone che incontra ; e, seguendo una convenzione mutuata dall’ultima tendenza del linguaggio documentaristico , questi “personaggi” sono interpretati da veri nomadi , che hanno portato la loro esperienza reale e non solo realistica all’interno di un film di finzione, laddove il documentario sta spostando sempre di più il confine tra realtà e rappresentazione della realtà, testimonianza e racconto. La sintonia e l’empatia stabilite tra Fren/Francis e Linda May, Charlene Swankie e Bob Wells ( quest’ultimo una sorta di guru della filosofia della vita su strada) , che , al contrario della McDormand nei titoli di coda mantengono lo stesso nome ( herself/himself ), è l’aspetto più riuscito e toccante, un processo che chiaramente sembra essere avvenuto in maniera spontanea, con alla base una fiducia e un calore dello sguardo, la pazienza del tempo e la percezione dello spazio. Una comprensione silenziosa e misurata, orizzontale e non verticale secondo lo schema di una certa narrazione forzata e strumentale di matrice anglosassone che tende a cannibalizzare e snaturare la realtà su cui cala il proprio ingombrante, elefantesco apparato, con tutte le sovrastrutture e le mistificazioni che ne derivano.

Quello che convince molto meno, fino quasi all’irritazione, è l’impressione che invece di cercare in maniera ancora più immersiva la “dimensione insondabile”,come cantava sempre Battiato e verso la quale la Zhao ha una chiara tensione di matrice orientale, nella semplicità del gesto, dello scambio relazionale e della solidarietà( davvero come se ci trovassimo in un racconto Sufi) la filmaker cinese insista molto sulla sua indiscussa sensibilità paesaggistica, abusando degli stupendi tramonti e degli skyline delle lande desolate ai confini delle coste occidentali degli Stati Uniti, enfatizzate dalla colonna sonora minimalista e insieme universalista di Ludovico Einaudi, un sentore ancora più fastidioso del voler esportare e rendere accessibile per forza questo sentimento a ogni latitudine del globo.

 

Fren potrebbe d’altronde essere una versione più matura e consapevole del personaggio della vagabonda Mona, interpretato da un’acerba e selvaggia Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge, capolavoro di Agnes Varda ( che , come Nomadland all’ultima Mostra del cinema di Venezia, vinse il Leone d’oro nell’edizione del 1985) molto più aderente alla materialità e alla concretezza del contesto, delle situazione e degli incontri, con un disagio e un’insofferenza maggiormente espliciti e dichiarati , viste anche la differenti età delle vita in cui incontriamo queste due donne: Mona, in fuga dall’opprimente conformismo di una vita piccolo borghese, sembra essere in uno stato di guerra e di furia perenne contro tutto e tutti per affermare la propria libertà; Fren, al contrario, sta cercando una tregua con il proprio mal di vivere in un movimento costante e quieto , senza le dissonanze o gli scatti jazzistici della sua più giovane controparte francese (certo, avremmo preferito comunque un autunnale John Coltrane al monocorde pianoforte di Einaudi). Entrambe sono accomunate dal rifiuto, caparbiamente rabbioso per Mona e pacatamente deciso per Fren, rispetto a chi li vorrebbe accogliere, trattenere e offrire una sicurezza nel talamo della decadente società occidentale che , sopratutto nel caso di Fren, ha mostrato tutta la sua illusoria fragilità: e nella riuscita scena dell’incontro con la sorella e con il cognato borghesi e benestanti , fa comprendere non solo le ragioni di una scelta personale , non ultimo il voler rimanere legata alla memoria del marito non legandosi stabilmente più a niente e a nessuno, ma di una condizione che , da politica e sociale come l’ ultima grande recessione che ha collassato il sistema neo capitalista ( senza generare ,purtroppo, un ‘alternativa equa e sostenibile, ma forme ancora più estreme di povertà e indigenza), si è fatta esistenziale e privata.

Proprio lo snodo politico ,il passaggio tra la condivisione collettiva e e l’elaborazione individuale , insieme alla solitudine che genera (le relazioni tra nomadi sono vissute di fatto in uno tempo e in uno spazio che la teoria psicologica della Gestalt definirebbe qui ed ora) , risulta nella struttura del film un po’ sacrificato a voler risolvere ogni contraddizione nell’incontro tra il corpo così umano e affettivo della McDormand e la ieraticità della natura;la fascinazione che vuole rendere sublime e meraviglioso qualcosa che è stato generato dall’abuso, dall’ingiustizia e dalla speculazione. Ben altra era l’analisi della Varda, che non perde mai la concentrazione nel descrivere il vuoto ( siamo negli edonisti e post ideologici anni ’80) da dove proviene Mona ( c’è anche una scena straniante e terribile in cui balla da sola , girando su stessa, dentro una stazione) e nel riconoscere che il nomadismo, da opportunità altra, può diventare una trappola autodistruttiva, in quanto originato da un trauma, una ferita, una scissione tra ciò che siamo e quello che la società ci ha fatto credere saremmo potuti diventare. Non può non venire in mente anche la roulotte in cui muore, solo e tormentato dal rimorso di aver capito “troppo tardi”, Christopher McCandless , il protagonista realmente esistito di Into the Wild -nelle terre selvagge: in quel caso, nei primi anni ’90, cercando di anticipare il disastro incontro al quale la società occidentale sarebbe andata , il giovane Chris aveva abbandonato lo status quo di privilegiato dell’upper class per ad andare a vivere, dopo una lunga esplorazione dell’America rurale, tra i ghiacci dell’ ‘Alaska; e il monito che intuisce appunto troppo tardi nelle visioni deliranti causate dall’accidentale ingestione di una pianta velenosa , sta proprio nel fatto che sono le relazioni a creare una comunità e a favorire nuove pratiche di convivenza,anche se il prezzo da pagare sono lo scontro e la frustrazione che a volte comportano, contro l’assoluto del proprio idealismo.

In Nomadland il pericolo dell’appiattimento di questa complessità sull’orizzonte di un qualche altrove mistico (Bob Wells in un dialogo con Fren le dice proprio che un giorno rincontreranno i loro cari perduti sulla strada) viene proprio da una certa tendenza dello sguardo di Chloe Zhao, dal dubbio se stia cercando un ‘illuminazione o un oblio, sfumando in una non chiarezza che si allontana troppo dal valore d’inchiesta del lavoro della Bruder e non acquisisce mai il nirvana del viaggiatore della canzone di Battiato/Camisasca .
Meglio restare sul livello più terreno dello sguardo e dei silenzi di Frances che , ascoltando le testimonianze di quegli uomini e quelle donne un po’ desaparecidos e un po’ bodhisattva, mi hanno ricordato questo passaggio de I vagabondi del Dharma, l’opera di Jack Kerouac che più di ogni altra ha cercato di esplorare quella ferita tra materia e spirito, tra decadenza occidentale e rinascita nel grembo della filosofia orientale:

“Poi tutto a un tratto ebbi il più terribile impeto di pietà per gli esseri umani, quali che fossero, le loro facce, le bocche dolenti, caratteri, tentativi di essere gai, piccole impertinenze, il sentirsi perduti, le loro cupe e vuote spiritosaggini così presto dimenticate: Oh, a che scopo? Sapevo che il suono del silenzio era dovunque e perciò tutto dovunque era silenzio. E se dovessimo svegliarci all’improvviso e vedere che quel che credevamo questo e quello, non è per niente né questo né quello?“.

Un dubbio, un fremito , un respiro affannoso. Un attimo prima di accendere la luce e stordirci in un paesaggio da cartolina.

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