L’immagine con cui si apre Sto pensando di finirla qui , quella della carta da parati cangiante sulla parete di una stanza, mi ha subito riportato alla mente Come in uno specchio , uno dei film di Ingmar Bergman che più mi turbarono quando lo vidi ragazzino tredicenne , in cui la protagonista Harriet Andersson era convita che al di là del muro potesse manifestarsi Dio, la cui ricerca costante la inquietava e gettava in un tormento psichico ed emotivo.

Anche nel caso di questo ultimo , ipnotico e spiazzante film di Charlie Kaufman, che si è ispirato all’omonimo, a lui affine romanzo di Iain Reid,  il controcampo di quella parete sono i dubbi esistenziali di una giovane donna dal nome imprecisato- Lucy, Lucia o Luisa: di inconfondibile c’è la figura di Jesse Buckley , l’attrice che la interpreta, fiammeggiante emergente dai capelli rossi e dalla fisicità che attraversa e contamina i generi , con quell’aria tra il ragazzo impertinente, la fanciulla incantevole e la seduttrice malinconica (e non perdete la sua stupenda, profonda voce nell’audio originale che Netflix permette di scegliere).
Sono partito da un ricordo personale, perché, tra le molteplici chiavi di lettura che , come al solito, il cinema torrenziale ( di parole , ma anche di concetti visivi) di Kaufman propone (o cela?) , quelle della memoria e della citazione non solo cinematografica , mi sembrano le più esplicite e accessibili per orientarsi dentro questo nuovo labirinto.

L’incipit della storia, una ragazza che aspetta il suo fidanzato per andare a conoscere i genitori di lui che vivono in aperta campagna nei dintorni di un’imprecisata cittadina ( sarà ancora Synedoche ?) è già messo in discussione e relativizzato dentro la voce off di lei , a cui per un attimo si sovrappone quella di un uomo anziano, che sembra scrutarla da una finestra, e in qualche maniera suggerirle o dirigerne le riflessioni. Il livello meta , in cui la dimensione del racconto nel suo farsi e disfarsi è continuamente dichiarata, resta la cifra preponderante di ciò che Kaufman ha fatto come scrittore ( Il ladro di orchidee, Essere John Malkovich ,Se mi lasci ti cancello ) e regista ( Synedoche, New York e Anomalisa) ed è calata verticalmente dentro l’argomento che più di tutti sembra ossessionarlo: la relazione di coppia, non dissezionata sotto la lente d’ingradimento di un’impietosa lucidità intrisa di dolore e compassione (come faceva Bergman in Scene da un matrimonio), e neanche enfatizzata dal lirismo di un artefatto e consolatorio immaginario (La la land , di cui qui c’è una sorta di contro-citazione nella parte finale).

Kaufman scompone, raddoppia, espande i suoi personaggi nel tempo e nello spazio, li rende funzioni di un gioco, di un meccanismo che è anch’esso lo specchio della vita , dove sono i pensieri la parte dell’Imitation of life meno contraffabile perchè, come dice Lucy , “Un pensiero può essere più reale, più vero, di un’azione. Puoi dire qualunque cosa, puoi fare qualunque cosa, ma non puoi fingere un pensiero”. E, come le parole, anche le immagini che vedono Jake ( Jesse Plemons, una toccante versione del primo Philippe Seymour Hoffman) e Lucia, spesso non corrispondono con la percezione dei luoghi, dei volti, degli oggetti incontrati lungo il loro fantasmatico viaggio/trip dopato da illusioni, rimpianti e fraintendimenti.
Lo stesso incipit, Sto pensando di finirla qui , che riecheggia come un mantra nella mente di Luisa , è continuamente interrotto dalle giravolte del racconto , che passa dal dramma intimista alla commedia romantica, dall’horror domestico all’onirico surreale fino ad arrivare al musical , a dimostrazione di quanto la messa in scena offra continue possibilità , anche in contraddizione tra di loro , per manipolare l’essenzialità di un pensiero, a cui comunque tutto torna ( la macchina sepolta dalla neve, davvero il grado zero della rappresentazione).

Ma questo slittamento è solo nell’immagine raccontata, in quello che accade o non accade, perché dal punto di vista stilistico c’è una coerenza e una compattezza, quasi un rigore, che fanno di I’m thinking of ending things la versione elegiaca e raccolta del più epico e magniloquente Synedoche, dove c’era la dimensione del teatro ( Philippe Seymour Hoffman interpretava un regista alle prese con una commedia che non finiva ma di scrivere) ) e della stessa New York come gigantesco utero dove ogni visione si crea e si distrugge.

Anche in Synedoche c’erano i legami familiari che sono l’unica coordinata temporale ( proprio perché racchiudono il presente, il passato e il futuro) all’interno di una flusso mentale che altrimenti non avrebbe ne inizio ne fine. La parte centrale ,quella che stabilisce un prima e un dopo , si svolge così all’interno della casa dei genitori di Jake, una fattoria in cui i maiali sono divorati dalle formiche e gli agnelli muiono assiderati, e dove gli stessi padre e madre appaiono ora giovani ora vecchi, ora vitali ora moribondi. O forse già morti, come dei fantasmi o delle allucinazioni.

E visto che anche un corpo attoriale può farsi segno , il volto tirato di smorfie e ghigni di Toni Collette, che interpreta la madre, rimanda in chiave grottesca alla generazione di donne maledette e possedute dal demonio dell’orrorifico Hereditary-le radici del male di Ari Aster. Proprio restando in tema di possessioni Kaufman si spinge fino a introdurre la suggestione dello scambio e della sovrapposizione identitaria tra Jake e Lucy , l’uno proiezione dell’altra o viceversa , e sposta la sua ossessione dal piano della relazione a quello dell’ impossibilità di essa. Tutto appare come un grande soliloquio e l’interlocutore, in realtà, un olograma con cui fingere di dialogare,per riempire il vuoto e il silenzio: che sia il gemello Donald creato per il ladro di orchidee o i mondi paralleli generati dalla memoria (Se mi lasci ti cancello ) o dallo spazio (il tunnel per entrare nella mente di John Malkovic) , l’altro appare sempre come un concetto, un riflesso\riflessione, qualcosa di scritto, o di filmato,che tenacemente cerca di portare verso la vita prima della parola fine ( curiosa è anche la durata estesa di questo “piccolo” film , 2 ore e 14minuti).
Non stupisce che nella sequenza successiva alla  visita familiare , ci sia un lungo passaggio in cui i due fidanzati discutono di Una moglie di John Cassavetes , un film che ha tutta la potenza e l’imponderabilità della vita vissuta, anzi “bigger than life” con il suo smontare in continuazione i limiti della parola come potere (manipolazione) e controllo, in nome della creatività espressa non attraverso il sublime dell’arte, ma praticata e sofferta nell’asfissiante e talvolta violento quotidiano della vita matrimoniale.

Kaufman mette in bocca a Lucy le parole della stroncatura di Pauline Keal , una delle guru della critica cinematografica statunitense , che ha espresso a volte discutibilissimi giudizi (per capirci: ha definito 2001 di Kubrick “ il più costoso film amatoriale della storia del cinema “ ): la Kael non amava Cassavetes, e si raccontano di memorabili risse non solo verbali fra i due; si era ovviamente schierata anche contro l’altrove celebratissimo, e per il sottoscritto capolavoro assoluto, Una moglie , tacciandolo di essere un film tendenzioso, forzato ,” pieno di dettagli stupidi che non dicono nulla della natura patologica dei personaggi”  e ridimensionando la stessa , immensa Gena Rowlands, che fa l’indomabile, struggente, poetica Mabel , come interprete eccessiva , accusandola di fare troppo e di non dare senso a nulla.

Se la ragazza,tramite le parole della Keal,si fa portatrice di questo pensiero penalizzante e conformista nello stabilire misure e confini, Jake le ricorda il phatos la profonda empatia che quel film suscita nei confronti delle persone più sensibili costrette a vivere in un mondo senza gentilezza e grazia (anche se in fondo è un’altra svalutazione, visto che riduce la ben più complessa esperienza estetica e narrativa di Cassavetes a una facile forma di identificazione con il personaggio della “vittima”).In realtà il cinema di Kaufman mostra una tensione costante verso la pulsionalità e l’intensità di Cassavetes e il fatto di rimanere “in potenza” “concettuale” “transitorio” , parole che sto paradossalmente mutuando dal commento della Keal sempre su Una moglie , ne segna un sofferto e consapevole limite , ma anche la peculiarità e il punto di forza. Il buon Charlie non ci si nasconde dietro ma lo porta al centro della scena , e mette a nudo la sua mente con le contorsioni e gli incastri ; ed è lui il primo a volersi destreggiare tra le ramificazioni e le chimere della psiche, senza negarne il fascino e la bellezza.

“Lo spettacolo non può essere compreso come un mero inganno visivo prodotto dalla tecnologia dei mass media. È una visione del mondo che si è materializzata” fa dire, ancora a Lucy ( cambiando per un momento l’ attrice ed esplicitando il “mero inganno visivo” ) , in una citazione da La società dello spettacolo di Guy Debord : una parte del titolo del suo film, Sto pensando, contiene già il processo di questa materializzazione e la fatica del passaggio dall’astratto al concreto.
Probabilmente è grazie a questa “fatica”, che Kaufman chiede di fare anche al disabituato spettatore con il rifiuto di offrire un qualsivoglia orientamento nel mare magnum di suggestioni e riferimenti,che si rimane conquistati e impressionati ( a condizione di aver accettato le regole della partita).

E dopo il climax del pre- finale in cui entra il numero musicale che però non celebra il possibile e l’impossibile come poteva essere per Emma Stone e Ryan Goslin, ma mima sommessamente la separazione tra Jake e Lucy , c’è un ‘altra grande intuizione: trasfigurare la conclusione di A beautiful Mind, le cerimonia del premio Nobel durante la quale John Nash, geniale matematico malato di schizofrenia, dice in maniera diretta e commossa quanto abbia trovato nell’amore per e da parte di sua moglie Alice la ragione della sua vita: con un trucco ancora più grottesco di quello che invecchiava Russel Crowe e Jennifer Connelly, sul palcoscenico del teatrino di un liceo di provincia, Jake esprime il suo frammentato e senile bisogno di contatto e di calore ad un pubblico di volti familiari e anonimi. Tutto, il palcoscenico, lo schermo, la sua stessa vita sono stati la manifestazione di una visione del mondo ( come in parte è stato per la mente scissa di Nash).

In fondo per interrompere un pensiero, un’immagine, un racconto basta applicare una sineddoche a una frase:
Sto pensando di finirla qui …fine.

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