Osservare la realtà dall’alto, per Leo e i suoi amici, è un modo rassicurante per ammazzare il tempo. Le terrazze dei condomini di Barcellona (quelle  dove riescono a intrufolarsi, almeno) sono per loro un rifugio, una sorta di Aventino in cui non-partecipare a una vita che sembra non aver nulla da offrire, sospesa e paralizzata.

Terrados è una storia corale di ordinaria disoccupazione, ambientata in una Spagna in cui l’entusiasmante effetto-Zapatero si è ormai dissolto, fortemente influenzata dal cinema (per fare un nome che in quest’edizione del TFF è diventato quasi un tabù) di Ken Loach e con evidenti analogie con quel piccolo capolavoro iberico che è I lunedì al sole di Fernando L. Aranoa.

Se negli esempi citati le storie hanno per protagonisti degli adulti, principalmente della classe operaia, che hanno una vita autonoma e sono alle prese con le bollette da pagare o con la crescita dei figli, la generazione che viene qui rappresentata è quella dei trentenni, quelli che hanno in curriculum lauree e master, ma devono districarsi tra lavoretti precari e sottopagati e vivono spesso ancora coi genitori. Quelli, per intenderci, che da noi sono stati definiti, a seconda del governo di turno, “bamboccioni”, “sfigati”, o per usare un anglicismo “choosy”.

Leo (Demian Sabini, anche regista del film, all’esordio nel lungometraggio) è un avvocato che ha perso il lavoro quando l’amico e collega Mario è stato costretto a chiudere il suo piccolo studio. I due, insieme all’ex segretaria e a un altro paio di amici, trascorrono le giornate, appunto, sulle terrazze, tra bevute e chiacchiere, nella totale passività. Hanno smesso anche di cercarlo, un lavoro, e chi può vive del sussidio di disoccupazione. La barba di Leo, sempre più incolta, è una metafora del suo progressivo lasciarsi andare, del sentirsi ormai estraneo alla società. Ad un colloquio viene respinto e rimandato a casa, prima ancora delle domande di rito, proprio a causa del suo aspetto non professionale (tornerà poi, elegantissimo e rasato di fresco, a prendersi la sua rivincita). La lunga inattività lo porterà a interrogarsi su se stesso, sulle sue vere aspirazioni, su una vita in cui la svolta non arriva e forse non arriverà mai, e a una crisi con la sua compagna, l’unica tra tutti i personaggi ad avere un lavoro stabile.

Demian Sabini (che dedica il film “a tutti quelli che, a un certo punto della loro vita, non sapevano più chi fossero”), classe ’80, racconta la crisi senza cercare alibi per la sua generazione. Il suo sguardo è senza dubbio empatico, ma mai compiacente o auto-assolutorio, e critico atraverso il personaggio di Mario, un po’ più grande e maturo degli altri, che esagera con l’alcool e a volte perde le staffe, ma ha ben chiaro che escludersi dalla vita e restare in stand-by non è la soluzione. Lo stesso Leo, verso la fine, sembra deciso a seguire l’istinto e a tentare un cambiamento, e per parlare all’amico di una sua idea per il futuro lo invita simbolicamente a lasciare la terrazza, per discuterne in casa, intorno a un tavolo.

Il film è stato realizzato senza alcun finanziamento pubblico, grazie alla piccola casa di produzione dello stesso Sabini (Moviement Films). Terrados è costato complessivamente 12.000 euro, grazie alla collaborazione gratuita di attori e tecnici, tutti disoccupati al momento delle riprese (tra il 2010 e il 2011).

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