Diversamente da quando si racconta la storia di molti film italiani (e non solo), nel caso dell’ultimo film dei fratelli Dardenne (ma lo stesso si può dire per il resto della loro produzione) l’orizzonte cui far riferimento si fa immediatamente vasto: le questioni affrontate rimandano infatti ad un’attualità stringente ed universale, la dimensione sociale e quella esistenziale si alimentano, dando ciascuno forza e verità all’altra. Ma, ancora, non è neanche tanto l’argomento scelto a determinare tale spessore (non sono tantissimi, ma ce ne sono di film che si avventurano nelle questioni dell’immigrazione), ma soprattutto il rigore preciso, tagliente, essenziale con cui viene trattato, dove tutto, ogni personaggio, la storia che si porta dietro e quella che determinerà, ha una sua severa e puntuale credibilità.

Quasi per forza a questo punto, la protagonista non può che essere una ragazza dell’est europeo, Lorna, che, per cercare di ottenere anche lei la sua parte di felicità in questo mondo, si infila nel gioco dei matrimoni bianchi: il piano, gestito dalla piccola mafia di Liegi, prevede che, per ottenere la preziosa cittadinanza belga, la ragazza prima paghi per sposare un drogato terminale, destinato secondo i calcoli a sparire di lì a poco data la sua dipendenza da stupefacenti, ma disponibile per sopravvivere un po’ di più alla sua miseria quotidiana a sposarsi in cambio di soldi; poi, liquidato il primo matrimonio, toccherà alla giovane albanese, ormai appetibile per altri come lei perché in possesso del prezioso certificato, dire di sì ad un russo ed incassare i soldi, destinati all’acquisto di un bar insieme con il fidanzato Sokol.

In questo incastro di esistenze darwiniane, dove nessuno si muove gratuitamente (“tu mi servi”  si ripetono spesso i personaggi del film, e “me ne frego” dice Lorna al tossico che le chiede aiuto,in quanto tale richiesta è fuori dall’accordo),  qualcosa non andrà come previsto e metterà i protagonisti di fronte alla necessità di fare delle scelte. A livello di struttura della trama quindi, sembra che i Dardenne ci mettano di fronte sempre allo stesso impianto, allo stesso scenario di base ed in definitiva, ad una simile lettura della realtà: La promessa, Rosetta, Il figlio, L’Enfant, sono tutti impostati su un’ottica rigorosamente scientifica, quasi positivista, in cui cioè gli uomini in scena sono nient’altro che quello che la realtà li costringe ad essere per restare almeno a galla,  e così si regolano nei rapporti tra di loro, finché non c’è qualcuno in cui l’umanità, un senso difficile eppure necessario di solidarietà verso il prossimo, preme, trova una strada e straborda, rompendo l’implacabile ingranaggio sociale.  Si può notare però che, negli ultimi film, i personaggi umani sembrano coincidere sempre di più con individui ai margini, spacciati, come se il loro slancio verso l’altro fosse motivato dalla disperazione del non avere altra via di scampo per attaccarsi alla vita più che da un consapevole sentimento di solidarietà (si pensi allo sbandato nel film l’Enfant e qui, al drogato); in un film precedente come Rosetta invece, era il compagno di lavoro più complesso e cosciente a non mollare, a non accettare fino all’ultimo la condizione bestiale cui la lotta per la sopravvivenza può costringere gli uomini, a non odiare Rosetta nonostante tutto perché ne coglie l’elemento di sofferenza umana che li accumuna. Si potrebbe così pensare ad un maggiore pessimismo dei registi rispetto alle possibilità progressive dell’esistente, interpretando in questa chiave di maggior chiusura anche il distacco definitivo dalla realtà che Lorna è alla fine costretta a mettere in atto con se stessa per rimanere viva e non farsi sopraffare dalla spietatezza delle regole del gioco (e qui sarebbe forse interessante operare un approfondimento su come, storicamente, proprio l’espediente della nevrosi nelle sue varie forme, qui rappresentata dalla gravidanza isterica, sia stato un modo per le donne di negare il proprio assenso ad una società che le condizionava in maniera inesorabile e di sottrarsi a tale controllo). 

Molte altre cose non cambiano nel film dei Dardenne: i personaggi prendono forza dalla cinepresa che è incollata sui loro gesti, sulla loro ripetizione, sulla materialità della loro esistenze, ( anche qui, come in molti film precedenti, insistite e ripetute sono le sequenze della spartizione dei soldi, così come le camminate verso le mete che scandiscono il ritmo convulso delle giornate dei protagonisti, le piccole azioni quotidiane – vestirsi,cambiarsi, aprire e chiudere il proprio armadietto- sono ripetutamente al centro della macchina da presa), sui loro visi dove la familiarità con la brutalità disegna un’espressione di sopportazione quasi inesorabile; Lorna, come Rosetta, non fa che camminare con il fiatone per le vie della città, veloce, perché c’è sempre qualcosa che deve fare, la sua sagoma a fuoco ed intorno sfocato, determinata, perché è in gioco il suo possibile riscatto e, per ottenerlo, controllata e paziente.  I luoghi per cui si aggira, anche questi ci sono noti: un appartamento semivuoto, la stazione di servizio, il phone center, il parcheggio dei pullman dove incontra Sokol, la stireria, il retro di uno squallidissimo bar (in Rosetta erano il chiosco, il campeggio, l’autobus, l’appartamentino dell’amico), sono cioè i luoghi d’uso a fare la città dei Dardenne, posti anonimi, semplici funzioni urbane, cui solo le vicende degli uomini conferiscono senso ed una loro bellezza. Eppure all’interno di un linguaggio e una struttura ormai sperimentata, il film ha ugualmente una forza coinvolgente, in quanto, come forse nessuno altro, è riuscito a centrare la condizione femminile all’interno delle dinamiche dell’emigrazione, dove la donna paga più di tutti, perché sottomessa più volte, non solo dalle logiche mercantili del mondo in cui approda, ma anche da quelle, miste di maschilismo inasprito dalla miseria, della realtà da cui proviene: si vedano i due personaggi maschili, Fabio, dall’inizio sfruttatore senza scrupoli e controllore ferreo della vita di Lorna, e Sokol, il fidanzato, anche lui insieme a Lorna alla ricerca di un futuro diverso, ma incapace, alla fine, di comprendere e condividere il dramma che invece avvolgerà lei, arrivando a giustificare proprio i comportamenti del mafioso, perché completamente accecato dalla volontà di farcela a tutti i costi, pronto ad umiliarla alzando la voce, pensando di poterla ricondurre ad un ruolo di passività, dopo aver accettato con indifferenza le situazioni difficili in cui Lorna è costretta a mettersi per realizzare il loro sogno, lei che infatti gli dirà “sei uguale agli altri”. E perchè riesce a costruire un personaggio intenso, articolato, sofferto, in bilico tra accettazione e adattamento alla realtà e incapacità, quasi istintiva (si veda a questo proposito l’esplosione di sintomi legati direttamente alla fisicità),  di reggerla fino in fon
do (nell’unica scena d’amore del film è Lorna a scoprirsi, a rompere tutte le regole che si era data, l’uomo soltanto la accoglie, ed è un momento che Lorna non dimenticherà più).

La capacità di indagare la realtà contemporanea attraverso un adeguato linguaggio cinematografico ha caratterizzato il cinema dei fratelli Dardenne, rendendolo tra i più interessanti e innovativi degli ultimi due decenni: il risultato raggiunto, in termini di equilibrio tra stile e contenuto, è ancora in grado di restituirci film importanti come questo. Proprio in linea con lo spirito di rigorosa ricerca che ha permesso di approdare ad una tecnica espressiva così efficace ed originale, ci si può auspicare che i due fratelli non si accontentino dell’equilibrio raggiunto, con il rischio di replicarsi e di incappare, loro malgrado, in ripetizioni manieristiche, ma procedano ancora nel loro scavo, apportando elementi innovativi ad una chiave che ha, probabilmente, raggiunto il suo punto di completa maturità. Forse in questo senso possiamo interpretare la presenza delicata della musica, sempre assente in tutti gli altri film dove gli unici suoni sono quelli della realtà, nella scena finale, quasi a sottolineare, questa volta con un elemento fuoricampo, l’umanità pietosa e quasi lirica del personaggio?

Chi scrive ci tiene a sottolineare che questa recensione è il frutto di una discussione collettiva.

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