[**] – In quello che è forse il più impuro dei generi, l’horror, esiste un parametro di riferimento assoluto al momento di esprimere un giudizio, che accomuna il sofisticato critico di nicchia all’uomo della strada che entra in sala esclusivamente per godersi lo spettacolo: la paura. Nell’horror l’opera cinematografica si pone un obiettivo, spaventare lo spettatore. Qualsiasi orpello accessorio non può che essere funzionale all’obiettivo stesso, e ogni altra considerazione non può che essere un portato di questo sforzo. Cinema, quindi, per il pubblico, al massimo grado, e quindi cinema al massimo grado onesto. Le grandi pietre miliari del genere — dai classici mostri Universal all’artigianato della Hammer, dagli splatter—movie ai cimenti d’autore nel genere, fino alla new wave giapponese — possono ridondare di sottotesti, fornirci approfonditi spaccati sociali o formidabili ritratti di psiche deviate, ma al succo tutti, tutti, fanno o hanno fatto paura, si chiamassero Dracula, Psycho, l’Esorcista, Rosemary Baby, Shining o The Ring. O meglio: hanno fatto paura a molti

Perché la paura è soggettiva quanto e più di ogni altra emozione umana. E quindi, al dunque, parliamo soltanto di maggioranze significative, in grado di decretare il successo di un film nel tempo, fino a radicarsi nell’immaginario comune. E allora, Paranormal Activities fa paura? Entro certi limiti, sì. Ma i limiti in questione sono tali che la risposta completa è più probabilmente un no.

Caso mediatico come pochi altri, erede virale del predecessore The Blair Witch Project molto più di quanto non lo fosse Coverfield, girato con una manciata di spiccioli e sospinto dal passaparola e dal nume tutelare di Steven Spielberg, tutto è stato già detto, tutto già sentito. Ma facciamo finta che non ce ne freghi niente. Che la diatriba annacquata sulla genuinità di questi crediti, sull’effettiva genesi della pellicola, sulla pubblicità e le manovre di marketing, persino sulle facce sconvolte degli spettatori americani nei primi trailer che circolavano su youtube, non contino nulla, e ragioniamo sul testo. Tralasciamo persino l’inesistente sinossi di una coppietta tormentata da una qualche entità casalinga che si manifesta tramite eventi paranormali e concentriamoci sullo specifico, per poter dare una risposta meno equivoca alla domanda cruciale di cui sopra, e chiediamoci: è possibile utilizzare la forma documentario, cioè massimo avvicinamento alla realtà, per raccontare una vicenda soprannaturale? Che cosa aggiunge al cinema horror questa sperimentazione non più innovativa, ormai, e che cosa sottrae?

Quello che balza agli occhi nell’ora e mezza abbondante del film è che non è in alcun modo in grado di disinnescare la prima mina in cui si imbatte: la noia. Hitchcock dava mostra di puro buon senso quando sosteneva che un film è la vita a cui sono stati tolti i momenti noiosi. Ma se togliamo i momenti noiosi, addio realismo, considerato che la realtà è spesso noiosa. Potremmo però, ad esempio, accorciare e addensare la narrazione, e questo il regista Oren Peli non lo fa, commettendo un errore: la noia, insieme al ridicolo, è la principale nemica dell’horror, perché, anziché spezzare la tensione e predisporre a nuovi spaventi, annebbia la testa dello spettatore, e lo pone in un’attitudine mentale di scetticismo che neutralizza ogni sospensione dell’incredulità.

C’è un’altra cosa che Peli non fa, né, forse, può fare: lavorare sulla regia per rendere più spaventosa la povertà dei contenuti. Delle due l’una: o si accentua il realismo della messa in scena per facilitare l’identificazione e sottolineare l’accostamento fra realtà quotidiana, verismo dell’immagine e soprannaturale; oppure ci si stacca dal documentario e si gestisce la macchina da presa (e il sonoro, il montaggio, le musiche, le interpretazioni e — soprattutto — la sceneggiatura) in maniera da amplificare l’effetto della paura. Anche tenendo da parte gli aspetti collaterali, fingendo che non siano i dettagli a fare la differenza — e quindi pazienza per il doppiaggio fastidioso, gli interpreti anonimi, addirittura le psicologie a tratti poco credibili (insomma, c’è un qualche mostro spaventoso in casa, ma come fate a ridacchiare per mezzo film?…) — quel che resta è una contraddizione irriducibile fra la natura “artistica” della paura, e il tentativo di oggettivare la diegesi tenendo nascosta l’arte. In parole commestibili, il film si scontra con lo stesso limite documentaristico che impone a se stesso. Il medesimo evento soprannaturale, un omicidio, il mostro di turno, possono spaventare o meno a seconda della maniera con cui vengono governati dalla visione dell’autore e dal suo talento. Ma se tale guida viene negata a priori, quel che resta è (quasi) silenzio.

In sostanza, Paranormal Activity non può che divenire vittima della grancassa che si è creato attorno, promettendo qualcosa che non potrà mantenere, almeno su vasti strati di spettatori medi. Perché fa una certa paura, per essere un finto documentario. Ma non ne fa abbastanza, proprio perché è un documentario finto.

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