Il 2008 se ne è andato via per sempre, e con lui anche i film che ci hanno fatto pensare ad un nuovo corso. Il bilancio è positivo per la qualità di un gruppo ristretto di opere (Tutta la vita davanti, Riprendimi, Cover Boy, Gomorra, Il divo, Il resto della notte, Il passato è una terra straniera, per certi versi anche Galantuomini, La ragazza del lago, Non pensarci, Sonetàula, Tutto torna e Pranzo di Ferragosto). Ma tutto sommato, come già scritto in altri approfondimenti all’interno di questa rivista, non siamo sicuri che il cinema italiano abbia iniziato ad attraversare una nuova, splendente fase. Scrivemmo, tempo fa, che il cinema italiano somiglia più a quello visto a Roma e Venezia, che a quello goduto a Cannes.

Detto ciò, l’archivio del 2008 si completa con un’altra serie di pellicole italiane, molte delle quali piccole fino alla struggente magrezza, povere di mezzi e non esattamente ricche di particolari qualità. Proveremo, in questo nuovo elenco critico, a raccontarle con trame, riflessioni e aggettivi, cercando di continuare sulla strada di un'onesta documentazione delle sorti, perennemente avventurose, del cinema italiano contemporaneo. Parleremo di quattro piccoli film pescati dall’underground e spiegheremo il perchè ci sono piaciuti e i limiti per cui non ci hanno convinto.  Il primo film della lista è Padiglione 22. Chi lo ha visto è dovuto passare per Roma. Per ora, infatti, il film è stato proiettato solo nella città eterna, anche se (pare che) potrà uscire anche in altre città tra qualche tempo. Intendiamoci, non è che nella città del Papa il film si sia trovato un po’ dovunque. Al contrario, è stato necessario andarselo a cercare col lanternino, e molti cinefili non sanno nemmeno che il film esista, o che sia passato in qualche sala. Si tratta di un esperimento interessante e ovviamente poverissimo. Vi hanno preso parte, oltre che il regista Livio Bordone, anche due attori tutt’altro che sconosciuti agli amanti, spesso non ricambiati, del cinema italiano contemporaneo:  Regina Orioli (L’ultimo bacio, Ovosodo) ed Elio Germano (Mio fratello è figlio unico, Romanzo criminale, Che ne sarà di noi, Liberi, Il passato è una terra straniera, Come Dio comanda). Anche se va detto che in questo film, il trasformista romano interpreta un ruolo assolutamente minore. Padiglione 22 si produce nello sforzo encomiabile di coniugare la passione per il thriller/horror con l'impegno storico e sociale. I due temi di fondo sono la malattia mentale e il modo in cui il nostro paese l’ha affrontata (non solo) fino al 1978. L’anno cioè, della preziosa e storica legge Basaglia. In questa direzione, una certa tradizione nel cinema italiano esiste, e due esempi piuttosto indicativi sono quelli di Diaro di una schizofrenica di Nelo Risi, e quello più recente e popolare de La Meglio Gioventù. Mai, tuttavia, nella storia del cinema nostrano, era avvenuto un matrimonio tra cinema di genere per eccellenza (l’horror) e la patologia psichiatrica trattata con tanta attenzione alla Storia. L’idea è venuta al regista un giorno di qualche anno fa (il film esce adesso ma è stato realizzato nel 2005) dopo aver visitato l’ex manicomio romano di Santa Maria della Pietà. Il progetto è interessante e il soggetto tratta di una vicenda familiare distesa su due binari paralleli, distanti tra loro una trentina d’anni: il primo torna agli anni della legge Basaglia ed il secondo poggia sul terreno del presente, in un paesaggio astratto che cerca di non svelare mai le sue location, anche se traspare, con una certa involontaria chiarezza, la sovrapposizione tra Roma e il capoluogo siciliano. E’ la storia di un ragazzo schizofrenico portato via dal manicomio nel 1978. A casa lo attendono due genitori e una piccola sorella gelosa. Quel povero “pazzo” viene trasferito in una clinica psichiatrica dove diventerà tanto adulto quanto solo e abbandonato a se stesso e al proprio dolore. Finchè un giorno morirà e da allora la sorellina, ormai donna, si troverà costretta a rivivere drammaticamente tutta la sua tragica vicenda familiare.

In un viaggio sospeso tra la visione onirica della protagonista e il soprannaturale del genere, la giovane donna incontrerà il fantasma/demone di suo fratello e il suo viaggio nella sofferenza culminerà in una soluzione fatale e per tanti versi liberatoria. Quale aspetto domina nel film? L’approccio storico o quello emozionale? Decisamente il secondo, visto che il primo è tanto presente quanto accennato, diremmo significativamente scenografico. L’interesse principale di Padiglione 22 è quello di sedurre e sconvolgere lo spettatore attraverso uno sviluppo emozionale che, con qualche momento positivo mescolato ad altri (parecchi) non riusciti, si propone di far vivere ai pochi temerari spettatori del film, lo spasimo terribile di un disastro oscuro e interiore. Come avviene la ricerca dello stupore spettatoriale? Con un insieme di artifici registici (suoni, storpiature di immagini, collaudati stratagemmi di montaggio), con soluzioni scovate nella storia del cinema Horror, classico e recente. La povertà di mezzi non aiuta certo la pellicola e gli effetti speciali adoperati dalla stessa non ci paiono impeccabili. Il doppio strato della vicenda, poi, seppur ambizioso da un punto di vista teorico, non appare sempre facile da assorbire e in qualche tratto obbliga ad una memorizzazione innaturale degli elementi narrativi. Resta, però, e questa frase rischia di essere terribilmente ripetitiva, la ricerca di un prodotto originale e poco omologato alla tendenza comune. Gli attori, soprattutto la Orioli, danno prova di affidabilità e il soggetto segna certamente l’aspetto più interessante dell’opera. La fotografia è il reparto che soffre maggiormente del percorso avventuristico del film e il buio che domina la pellicola risulta un limite obbligato più che una reale scelta estetica. Gli aspetti storico-sociali tornano con decisione alla fine del film, ma il loro atteggiamento posticcio non toglie a questo povero progetto le sue qualità personali, quelle cioè di un tentativo ardito e coraggioso che non ascolta nessun cinema italiano, se non quello che manca.


 Il secondo film nascosto sotto l'albero è Un attimo sospesi. Peter Marcias, l'autore di questo esordio, è un giovane regista sardo, laddove l’aggettivo giovane va letto senza virgolette. Prima di analizzare il suo ultimo lavoro, ovvero il suo primo lungometraggio, è necessario raccontare quello che l’autore ha sin qui svolto. Partiamo da alcuni suoi preziosi cortometraggi, perché lì dentro è possibile riscontrare la seconda parte della consuetudine cinematografica sarda contemporanea per niente arcaica, banditesca e tradizionale. Al contrario urbana, socialmente instabile, multietnica e problematica. Simile, in anni di ormai società liquida, (è il termine usato da Bauman per sintetizare la velocità con cui si sposta e si modifica la società contemporanea) ad altri posti del mondo, sempre piuttosto meridionali. Nel cortometraggio Il canto delle cicale (2003) e in Sono Alice (2005), per esempio, si parla di lavoro. Il canto delle cicale inizia all’insegna della tradizione, con una processione e con il rito religioso della messa. Subito dopo, però, irrompe nel corto il tema del lavoro e lo fa mostrando il suo lato più atroce e doloroso: quello dei gravi infortuni che possono colpire gli operai. Le facce dei corti di Marcias hanno rughe ed espressioni marcate, quelle anonime della gente comune. Ciò fa dei suoi film brevi qualcosa di autentico ed efficace, perfettamente adatto a temi operai.  Il problema  del lavoro, infatti, è centrale anche nel successivo Sono Alice. Perché se è vero che la protagonista del corto è una bambina, è altrettanto vero che il suo gesto ingenuo e pieno di dolcezza (vendere le bandiere allo stadio per portare a casa qualche soldo) nasce come reazione alla disperazione del genitore disoccupato. E’ una Sardegna di oggi quella dei corti di Marcias, simile a quella industriale di Pau e a quella quasi metropolitana e multietnica di Pitzianti. Ma è anche una Sardegna del sud, in cui l’unico impiego possibile e “amaro” (in senso verghiano) è quello del mare, per una pesca magra e addirittura drammatica per il protagonista di Sono Alice. Questo durante un’uscita in barca verrà colto da tempesta e i carabinieri spiegheranno alla famiglia che tutte le ricerche sono state vane. La stessa Sardegna cittadina è presente nel corto Olivia (2004), un altro piccolo film che è un musical, e questa è già una notizia curiosa. Un musical sull’amore tra Olivia e Alberto, sullo sfondo di una Cagliari senza pastori, senza greggi e senza banditi. Alberto è un ragazzo down e vola con la fantasia sulle ali di un giovane amore: ecco il sociale che entra nell’intimo, anche in Olivia domina una fantasia registica, e si incontra con le cose meno belle della vita, che sono inevitabili e presenti, e vanno combattute con la forza della  musica, del sogno, della fantasia e dell’amore. Sono tre corti da promuovere, quelli del regista cagliaritano, e li abbiamo raccontati brevemente per comunicare quanto aspettavamo il suo esordio nel lungo e quanto avevamo (ed è ovvio che abbiamo ancora) fiducia nel suo lavoro.  Va ricordato che prima di Un attimo sospesi, Marcias ha girato un quasi lungometraggio scegliendo la forma ibrida del docu-finzione. Si tratta di un altro film sul presente e si intitola Ma la Spagna non era cattolica? E' un lavoro del 2007. Dura settanta minuti e racconta le vicende di un paese, l’Italia, alle prese con una matura gestione di un argomento così delicato come quello dell’omosessualità. Il regista mescola interviste paradigmatiche e attraenti ad un linguaggio narrativo fresco e pulito. Colpisce l’uso del colore ed è degnissimo il modo in cui la finzione si inserisce nella realtà quotidiana raccolta dalla parte documentaria. Ancora una volta a segno Marcias, il regista sardo che attendeva solo l’ingresso nel pianeta lungometraggio di finzione.

L' esordio è avvenuto con il film Un attimo sospesi. La pellicola è stata proiettata al Politecnico Fandango di Roma ed ha ottenuto qualche riconoscimento in giro per il mondo. Di che si tratta? Innanzitutto di un film ambizioso, più nei contenuti che nei mezzi, tanto è presente un minimalismo produttivo all’interno del progetto. Marcias, che già nel mediometraggio aveva imbarcato sul traghetto la sua voglia di mondo, sceglie di girare a Roma cinque storie private, intime, sociali ed esistenziali. Le tiene unite su una superficie atmosferica singolare, originale e autoriale: tra un privato e l’altro, tra la prima e la quinta solitudine, si incollano un attentato terribile e la minaccia di una guerra atroce. C’è una specie di apocalisse incombente, una sorta di rivoluzione che permea e appesantisce le strane vite che popolano la pellicola. Non ci è dato sapere di cosa si tratti, ma la eco che frastorna il tutto sintetizza la nostra angoscia contemporanea. E’ insomma un film che cerca di raccontare il presente rifiutando la didascalia e cercando di rifarsi a modelli poco in voga nel cinema italiano. L’idea è nobile, il progetto interessante ma il risultato espressivo dà l’impressione di essersi fermato qualche istante prima del disegno sviluppato nella testa di un autore che da subito ha rifiutato il compitino e la furba discesa in campo.  La pellicola, a cui prendono parte attori del calibro di Paolo Bonacelli, Nino Frassica e Fiorenza Tessari, è persino visionaria in certi tratti e i comportamenti dei suoi stravaganti personaggi si avvicinano a un realismo magico più europeo che italiano. Quel realismo, però, ben presente nei corti di Marcias, fatica a farsi spazio dentro un luogo personale che pur zoppicando vistosamente mantiene viva una preziosa nobiltà d’animo. La leggerezza delle nuove creature marciasiane incappa nella trappola dell’esile e le sensazioni si antepongono alle riflessioni. Il segno del pittore non completa il contorno della figura, e il sordo insopportabile che domina l’esterno, pur interessantissimo, non si amalgama con gli occhi e le reazioni dei protagonisti in maniera vincolante. Restano le idee, i progetti, il desiderio espressivo e la capacità di una regia antitelevisiva che scrive una storia di inquadrature e montaggio più da cinema che da tv.

 Il terzo film di questa lista, il migliore, si intitola Ossidiana onesta e tenace opera di Silvana Maja. Non è solo la biografia della pittrice napoletana Maria Palligiano, dal talento deciso e fragile come la pietra a cui il marito la paragona nel film: la stessa che dà il titolo a questa piccola. L’ossidiana, appunto, è una roccia che i preistorici usavano per fare armi ed è adoperata, oggi, per fare gioielli. La pellicola è anche il racconto di una necessità artistica debordante: l’unica via d’uscita, selvaggia e letale, da una prigionia esistenziale. Il film racconta un rapporto insanabile (potenzialmente salvifico e alla lunga inutile) tra l’universo interiore di una donna e le possibilità offerte dall’arte. Una storia tra arte ed artista che va al di là del talento e del risultato espressivo: l'arte come strada spontanea, unica, obbligata e senza traverse laterali. La vicenda di una persona che ha provato per tutta la sua vita a far uscire ciò che le a
bitava dentro e che era più forte e più importante di tutto il resto, forse anche del successo. Maria Palligiano ha provato a sviluppare pienamente la sua complessità, forse follia, forse tutte e due le cose arrivando ad un punto di non ritorno, sancendo, anche in quell’ultimo istante tragico di vita, un connubio indissolubile tra vita ed opera d’arte. Il finale è composto da una sequenza davvero riuscita: bella e drammatica, fatta di inquadrature piene di valore. Ossidiana racconta, tra incubi, creazioni cruente e dolore acceso, un’esistenza interamente (ri)versata nei contenuti cromatici di tele dal selvaggio e disperato colore. Da questa vita lacerante nasce un romanzo cinematografico severo, indigente di mezzi ma pulito, intenso e drammatico. Nè furbo o conciliante, in cui la pittura, vissuta come arte totalizzante, s’interseca in modo inscindibile con la vita di una pittrice nata a Napoli nel 1933 e lì diplomata all’accademia di Belle Arti nel 1954. Maria partecipò all’esperienza della giovane avanguardia partenopea con altri allievi del pittore futurista Emilio Notte: Lucio del Pezzo, Guido Biasi, Carlo Alfano, Gianni Pisani, Mario Persico. E con il maestro stabilì una relazione sentimentale (poi trasformata in matrimonio) da cui nacque il figlio Riccardo. Maria Palligiano è morta suicida il 19 novembre 1969. Nel 1996, Jean-No Schifano, direttore dell’Istituto Grenoble di Napoli, ha organizzato nell’Istituto di Cultura Francese un’ampia retrospettiva dedicata alla pittrice. In quell’occasione Silvana Maja vide per la prima volta le opere della Palligiano, rimanendo molto colpita da una pittura che lei stessa definì “difficile da dimenticare e tuttavia ignorata sia negli anni in cui venne prodotta che oggi”. Fu così che nacque l’idea del recupero di un personaggio sofferente, complesso e sfiancato da se stesso. La futura regista volle incontrare tutte le persone vicine alla pittrice e trasformò il suo reportage in un libro/romanzo “più morboso” del film e meno “pastellato” rispetto a un’opera cinematografica “più sociale e più aperta”. La scelta di raccontare così da vicino la complessità di un personaggio denso e poco conosciuto è stata un rischio superato solo in parte, e non senza fatiche e ostacoli. L'attività della Palligiano è stata interrotta da frequenti ricoveri presso una clinica psichiatrica e amputata dai gesti di auto cancellazione che l’artista, prima del suo gesto estremo, compì di sua mano, distruggendo parte dei cataloghi, degli articoli di giornale, delle riviste, delle foto, dei propri scritti e dei documenti che la riguardavano in prima persona. In questo modo l'artista ha contribuito a far calare il silenzio e l'oblio su se stessa  e l’operazione della regista Maja, al di là del valore artistico del suo film, nel complesso soddisfacente, non basta a suscitare l’interesse di un pubblico massiccio per un personaggio tutto da scoprire. Il problema distributivo non nasce assolutamente dal linguaggio adoperato dalla Maja (televisivo solo in minima parte e piuttosto autoriale nell’infilare gli incubi visionari della pittrice e le sue esperienze sociali, relazionali, artistiche ed esistenziali, in una narrazione tutto sommato solida e capace di resistere ai morsi della povertà produttiva). E la quasi negazione distributiva non nasce nemmeno dal sapore sciapo dell’opera Palligiana, che, al contrario, si mostra vivida e piacevolissima anche a un occhio distratto e non appassionato di pittura. Il film è nato con un destino di super nicchia perchè rimane legato alla storia di una donna poco rilevante da un punto vista storico e non riesce nella quasi impossibile missione di raccontare, col massimo cinema, una parabola intrigante, paradigmatica ed universale.

Il merito principale di Ossidiana, allora, che pure sa andare oltre la mera descrizione di una storia umana ed artistica, è quello di far riemergere (speriamo in maniera non paradossalmente relativa, nel senso che ne beneficieranno solo quelli che già conoscevano l’artista) un essere artisitico che merita attenzione e memoria. La pittura di Maria Palligiano, infatti, mostra una qualità attraente che merita di essere conosciuta e che sa fondersi a meraviglia con le potenzialità cinematografiche. Una buona tela su grande schermo è sempre un bel vedere. Il film, girato interamente a Napoli e dintorni (e costituito da un cast di tutto rispetto), ha visto il coinvolgimento di molti professionisti e giovani artisti anche volontari. Si è trattato di una sfida forte e appassionata di moltissime persone, cast artistico compreso, che hanno voluto la realizzazione di questo film sulla “vicenda” umana di Maria Palligiano.
Prima di concludere, due parole sulla protagonista del film : Teresa Saponangelo (Pianese Nunzio, Ferie D’agosto, voce in Vogliamo anche le Rose. L’attrice napoletana si concede con passione al personaggio, lo incarna con totale disponibilità ed offre corpo e viso dall’inizio alla fine, riuscendo a riempire di vita le parole di una sceneggiatura impegnativa. Accanto a lei recitano attori del calibro di Andrea Renzi e Renato Carpentieri, onesti attori di un film degno e purtroppo legato ad un destino di qualitatevole penombra.

 L'ultimo indipendente italiano del 2008 è Il pugile e la Ballerina. La vicenda, anzi, le due vicende principali di questo piccolissimo film molto romano, si svolgono tra certi vicoli storici (più accattivanti che anonimi) della città eterna che tende all’arancione: il "rione Monti", già di moda giovanile da alcuni anni (certificato recentemente dal documentario del vecchio lupo Monicelli, Vicino al Colosseo c’è Monti), e "Corso Vittorio Emanuele", in una trattoria che sta dalle parti di "Via dei banchi vecchi", esattamente in "Piazza Sforza Cesarini", a due passi da "Campo De’ fiori" e ad uno dal "Teatro dell’Orologio". Angoli di una Roma (poco) segreta che da sola è cinema. Sì, è vero, Il pugile e la Ballerina è stato girato nel 2005, quando Monti non era ancora in pieno boom (la faccenda politica dell’ "Angelo Mai", ad esempio, è postuma al film, e il documentario di Monicelli era assai lontano dal suo concepimento);  c’è anche la mensa della Caritas, nella pellicola, quella sì davvero apprezzabile espressivamente parlando e semisconosciuta al cinema. Ma, ad esser precisi,  va detto che la mensa pubblica principale per i poveri di Roma va in scena una sola volta, al contrario degli spazi "storici" e antichi, reiterati lungo tutto il film.
Dentro le storie incrociate si parla soprattutto di quattro uomini falliti e smarriti, decadenti come certe umanità di Estate Romana. Ma la pellicola di Suriano, sgranata, povera e piacevolmente maleducata, è priva di quella compattezza espressiva e di quell’unità narrativa che caratterizzavano, ad esempio, il terzo lungometraggio dell’importante Matteo Garrone. Ci sono anche strizzate d’occhio a un Pasolini prima maniera, ma tutto il citazionismo (latente o palese) del regista esordiente è vuoto. Sfondo attivo e fondamentale, invece, seppur in maniera diversa, si
poteva definire quello dell’Accattone pasoliniano e quello dell’avanguardia teatrale persa, stralunata e sudata, raccontata, con Estate romana, dal regista di Gomorra. Parliamo di due autori importanti del cinema italiano, e non vogliamo azzardare un paragone che sarebbe fuori luogo e ingiusto nei confronti di un autore esordiente nel lungometragio di finzione. Lo facciamo solo per ricordare quanto sia necessario armonizzare un rapporto tra personaggi e ambiente in un cinema che rifiuti la narrazione classica e che si dia il compito di dipingere un contesto culturale fatto di ambienti, individui e fauna culturale esistita per davvero.

La sensazione è che il film non sia riuscito a tirar fuori quello che il regista aveva dentro, quasi sicuramente per un problema di scarsa dimestichezza con lo strumento a disposizione e con le sue abnormi complessità organizzative. Si respira, in questo esordio mezzo ubriaco e mezzo incosciente, ma anche sanguigno e positivamente sfacciato, un tentativo di autorialità decisa, che si confonde, però, nella nebbia di un quadro sbilenco e purtroppo non concluso.  Ci sono alcune citazioni indicative, una su tutte il poster godardiano di Fino all’ultimo respiro, capolavoro, certo, ma iper omaggiato e preso a prestito da troppa gente. Citazioni, tra l’altro, che non evitano alcune doverose, e purtroppo senza risposta, imbarazzanti domande: da dove vengono, dove vanno, ma, soprattutto, chi sono i quattro personaggi (alcuni per altro simpatici e curiosi) del film? Dov’è la loro pasta umana, il loro significato cinematografico? Dove sono le informazioni che ci parlano del loro rapporto col contesto? Ci sono gallerie d’arte, luoghi di incontro tra artisti, una palestra storica ("L’audace") ma vorremmo, davvero, saperne di più. Vorremmo poter associare i piccoli appunti che il film ci consente, ad un racconto storico, e ci dispiace abbandonare l’impresa un bel pezzo prima che scorrano i titoli di coda.
Il film inizia con un breve piano sequenza: la macchina da presa scende da una scalinata, si guarda attorno e poi si ferma su un uomo che balla, quasi nudo e insieme travestito da donna, sopra il cofano di un’automobile.  Le note e i suoni vocali che accompagnano questa potente immagine sono quelli caldi e passionali di Maria Nazionale (la canzone è Ragione e sentimento). Che sia un omaggio all’ultimo Matteo Garrone? Impossibile, il film è precedente a Gomorra e allora merito a Suriano di aver utilizzato un’artista particolare e pressochè sconosciuta, a livello nazionale, scusate il gioco di parole, nel 2005/2006. La scena sorprende in positivo e le braccia sollevano, svegliandolo immediatamente, il corpo molle dello spettatore dalla sua poltrona rossa e vellutata: potrebbe trattarsi di un film interessante, di una bella perlina nascosta in un cinema storico e vuoto di sabato pomeriggio (il Filmstudio romano). Invece, purtroppo, non è così e inseguiamo tutti i molteplici personaggi che si passano la palla e la scena, faticando a mettere insieme i pezzi, le facce e le parole. Le pennellate, alla fine, non quagliano: l’autorialità si perde nella confusione e non comunica con lo spettatore. Se si vuole descrivere una fauna, bisogna contestualizzarla con chiarezza ad un luogo, ad un tempo, a qualcosa di significativo. Altrimenti non si parla di nulla, e se questo è il secondo problema, il primo è l’insufficienza linguistica de Il pugile e la Ballerina. Dei continui salti temporali del film, poi, che dire? Perfettamente in sintonia col resto: altra scelta fatta per dimostrare qualcosa, ma utile soltanto per alimentare la confusione e, quel che è peggio, la fatica della noia. Un film si può sbagliare, non c’è problema. Anche perché può essere un ottimo modo per schiarirsi le idee e puntare con più decisione a qualcosa di più semplice e preciso. Sarà per un’altra volta, col consiglio di ripartire dalla forza e dalla stravaganza della prima sequenza.  Curiosità: Nel cast figura anche Marcello Mazzarella, attore quasi feticcio di Pasquale Scimeca e recente interprete del (tutto sommato) positivo La siciliana ribelle. Ne Il pugile e la Ballerina veste i panni di un poliziotto cacciato dal lavoro perché ladro.

A presto con i film poco visibili del 2009.

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