Dalla sezione “Il Cile attraverso il documentario” all’ultimo Roma Doc Fest ci si sarebbe potuta aspettare una serie di documentari che testimoniassero il periodo della dittatura di Pinochet o la sofferenza di chi ne fosse stato drammaticamente colpito. Invece la selezione fatta da Sergio Gorigoitìa ha deliberatamente voluto mostrare aspetti di questo paese forse marginali o meno conosciuti ma anche più nascosti, riferiti ad alcune minoranze o a storie individuali.

Dopo il ’73 e fino alla metà degli anni Ottanta, la quasi totalità della produzione documentaristica cilena era costituita da documentari di denuncia della dittatura di Pinochet,  prevalentemente realizzati all’estero, mentre il cinema e le altre espressioni artistiche, tranne la televisione,  erano bandite dal regime. Nonostante questo la scuola documentaristica cilena, grazie anche a Patricio Guzmàn (La Batalla de Chile), ha continuato a consolidarsi e, verso la fine del governo militare, ha ripreso il suo posto d’onore nel panorama filmico.

Oggi, a seguito della riconquistata democrazia, il documentario cileno contemporaneo è teso più a mostrare e interpretare le trasformazioni del Cile contemporaneo offrendo una visione critica del processo di transizione democratica iniziata dopo il governo militare. Cerca di raccontare fedelmente le contraddizioni di una società in cui il processo di democratizzazione non può completarsi senza la tutela effettiva dei diritti delle persone. In una società soffocata dal consumismo e dalla perdita dell’identità culturale, come quella cilena, dove i diritti  non sono del tutto riconosciuti ed estesi a tutti, non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti  (del popolo indigeno mapuche in El despojo, dei minatori della piccola comunità di Hiulimay che lottano per far sopravvivere la loro attività in Pirquineros en Huilmay dei detenuti in Arcana,).

Il Festival ha così cercato di rintracciare, attraverso questo viaggio negli aspetti problematici della società contemporanea cilena, le radici del paese offrendo uno sguardo panoramico su tutti quei movimenti degli ultimi ottant’anni che hanno portato al complesso processo plebiscitario che determinò la fine del governo militare. Così Imagenes paganas, raccontando la processione della madonna della Merced  nella piccola  città di Petorca, in cui tutta la comunità viene coinvolta nei sontuosi preparativi durante il corso di un intero anno, mostra i lati contraddittori di una religiosità che sconfina nel paganesimo, in una miscela di fede e superstizione, tra conservatorismo dei ricchi e speranza religiosa dei poveri, a dimostrazione del potere che occupa la tradizione cattolica nella cultura cilena, al di là del tentativo di ritrovare un’identità culturale autonoma nella propria società.  In Actores secundarios (genesi delle occupazioni studentesche nei licei, dall’ ‘85 all’ ’88 , che portarono alla democrazia ) e in Malditos, la historia de Fiskales ad hok (storia della più importante band punk cilena parallela al processo che portò la fine della dittatura e all’inizio del periodo definito di transizione democratica) viene rappresentata tutta la delusione di fronte alla realtà democratica degli anni Novanta di chi vedeva nel nuovo sistema politico una sovrastruttura del capitalismo volto a legittimare il potere della classe dominante. In entrambi i documentari risulta evidente che, chiamandosi fuori dal dibattito politico, coloro i quali non hanno saputo trasformarsi si sono individualisticamente ripiegati su stessi invece di assumere  ruoli decisivi come attori sociali e culturali.  Di tutti i documentari della rassegna Arcana, un progetto di Cristòbal Vicente nato nel 1999, spicca per la raffinatezza stilistica con cui combina le scene di vita all’interno del carcere di Valparaìso. Le terribili condizioni in cui vivono i detenuti, circondati ovunque da cumuli di immondizia, vengono descritte attraverso le immagini in bianco e nero degli oggetti di uso quotidiano, dei volti dei detenuti rinchiusi nell’angusta monotonia delle piccole celle e accompagnate da un opprimente sottofondo musicale dal timbro scuro e ovattato. Il carcere diventa qui metafora della società cilena (nella scena finale, l’unica a colori, la figura del carcere si vede via via sempre più in lontananza, ma rimane centrale nell’inquadratura in cui è inglobata una porzione del territorio cileno) che condanna tutti coloro che hanno sbagliato e che non sono utili al sistema, relegandoli alle fiamme eterne dell’inferno.

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