Sembrava già scritto da qualche parte, nel loro destino, che si sarebbero incontrati per mettere a confronto le proprie poetiche, le loro idee sul cinema, le esperienze reciproche maturate nel corso di oltre quarant’anni di carriera: perché è da circa quattro decenni, infatti, che Walter Hill e Sylvester Stallone ragionano con i loro film sul tema di fondo dell’eroe alle prese con il senso di colpa, originato dall’obbligo di conformarsi a principi morali spesso autoimposti per rispettare un’etica dell’onore connaturata all’essenza stessa dell’essere eroe. Le coordinate spaziali e temporali attraverso le quali si muovono ed agiscono i personaggi del loro cinema fanno riferimento alla stella polare del Mito all’interno dell’immaginario collettivo colorato a stelle e strisce. Il risultato di questo sodalizio artistico, sul cui carattere occasionale non saremmo pronti a giurare, è Jimmy Bobo – Bullet to the head, opera in cui risulta ben calibrato il rapporto tra la performance dell’attore e il lavoro di regia, come se tra l’autore di Geronimo e l’interprete di Rambo fosse stato indirettamente concordato un patto di mutuo – e funzionale – rispetto reciproco dei ruoli. In effetti Jimmy Bobo, il sicario vecchio stile, scaltro e ironico tanto quanto spietato e vendicativo, cui Sly presta il proprio corpo da ultrasessantenne superpalestrato, è soltanto una pedina, di certo importante ma non l’unica, nello scacchiere narrativo congegnato da Hill per questo action movie “classico” che occhieggia ai migliori esempi degli anni Ottanta e  Novanta, alcuni dei quali, peraltro, firmati dallo stesso Walter Hill. Diremmo anzi che il punto di partenza di Bullett to the head è il medesimo di 48 Ore e a cambiare è soltanto l’identità dei due protagonisti: il buono in questo caso è un poliziotto di origine coreana mentre il “cattivo” è un bianco che ha molto più da spartire con Danko (ancora di Hill, 1988) che non con il nero interpretato da Eddy Murphy nel film del 1982. Ma anche in questa circostanza la coppia di protagonisti è costretta a  sopportarsi e a collaborare, nonostante le diversità, per raggiungere uno scopo finale. Jimmy  Bobo e Taylor Kwon (Sung Kang) dovranno dunque fare i conti con il crudele mercenario Keegan (Jason Momoa ) per vendicare la morte dei loro amici-colleghi. Al fine di desaturare la violenza delle immagini, Hill arricchisce i dialoghi di battute ironiche e stemperanti che attutiscono la tensione emotiva con un brechtiano effetto di straniamento, come a voler confermare la natura di fondo ludica dell’intera operazione, ricca di passione e sano disimpegno cinefilo. Vanno in questa direzione anche le numerose citazioni auto ed etero referenziali che costellano l’intero racconto, come la battuta: “Vuoi ancora un altro round?” pronunciata da Keegan nel prefinale per irretire Bobo prima dello scontro a colpi d’ascia ispirato, senza ombra di dubbio, al Cobra di George Pan Cosmatos; oppure l’ingresso degli intrusi nella villa del miliardario che fa il verso ad Eyes Wide Shut, mentre la lotta nella sauna richiama La promessa dell’assassino presentandosi però in veste del tutto antinaturalistica rispetto al film di Cronenberg. Il ritmo imposto dalla regia di Hill e la spettacolarità di molte sequenze d’azione condonano del tutto alcune approssimazioni narrative, come se anche queste facessero parte del gioco. Nell’universo manicheo del cinema di Walter Hill, evidentemente condizionato dalle logiche del western alla John Ford, i volti e i corpi degli eroi necessitano delle giuste fisionomie per essere rappresentati; in questo senso la scelta di tutti i principali interpreti risulta assai fortunata: Jason Momoa, dopo il remake di Conan il barbaro, assume i panni del cattivo con l’adeguato compiacimento e Taylor Kwon ha la giusta misura per il suo poliziotto equilibrato e grintoso. Ma la vera icona del film rimane Sylvester Stallone con la sua presenza massiccia e il suo irresistibile gigioneggiare autoironico, visibilmente a proprio agio nello spazio-cinema disincantato e fiero creato da Hill senza pensare troppo a lui.

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