La voce di Margit Carstensen e il volto di Irm Hermann, ovvero la padrona Petra e la schiava Marlene ne “Le lacrime amare di Petra Von Kant”, non solo uno dei più rigorosi ed assoluti melò realizzatti da Rainer Werner Fassbinder nel suo impetuoso e bruciante passaggio su questa terra ma anche una delle vette di quel genere che si presta con tanta generosità a stare a cavallo tra l’epoca classica,quella moderna e ancora quella post moderna del cinema e della sua relativamente breve vita: l’ equilibrio precario e al tempo stesso preciso tra isteria e lucidità, spietata analisi delle dinamiche relazionali all’interno di uno spazio e di un contesto sociale ben definiti ( quell’appartamento dalle eleganti e simmetriche geometrie dove transitano con aria aristocratica e decadente donne dell’alta borghesia) e totale, definitivo abbandono all’ossessione e alla vertigine di un desiderio dilatato tanto sulle melodie dolci e malinconiche dei Platters quanto sulle note eteree di un’aria verdiana( “un di felice” da La Traviata); Un luogo topico del cinema fassbinderiano dove la dialettica serva/padrona, pur rimanendo immutabile e circolare, può cambiare i corpi e i cuori che vestono questo o quell’altro ruolo…..insomma, vedere e ascoltare Margit ed Irm nel documentario di Christian Braad Thomsen dall’inequivocabile titolo “To love without demans ” (Amare senza pretese) presentato l’ultimo giorno del festival di cortometraggi e nuovi immagini Arcipelago all’interno di uno spazio dall’altrettano inequivocabile nome, “la solitudine dei numeri uno” (l’altro nome in cartellone era Orson Welles, per intenderci) mi ha provocato qualcosa di più che un senso di curiosità nei confronti di due attrici e di due donne tanto importanti nell’opera e nella vita di un autore che tanto ha influenzato il mio modo di vedere e di sentire il cinema in prospettiva, considerando che vidi Petra Von Kant a diciotto anni.

C’è stato un vero e proprio tuffo al cuore, un’emozione come quando ti ritrovi di fronte a due amiche il cui ricordo era rimasto integro e conservato nelle immagini e che ora ti vengono a parlare di un amico comune che non c’è più, ma con il quale continua un dialogo appassionante e stimolante grazie alla opera omnia sopravissuta alla sua morte, dove tutti i linguaggi( teatro, letteratura, cinema) si fanno esperienza nel corpo di un uomo, nella sua autobiografia, nella storia di un individuo che, come diceva Strehler parlando in quel caso del teatro, si fa storia dell’intera umanità.Probabilmente, proprio venendo dalla ripetuta lettura della biografia che Jurgen Trimborn ha dedicato a Fassbinder , dal titolo che ne riassume bene il rapporto con il tempo ( “Un giorno è un anno è un vita”), non ho trovato così scioccante o sorprendente il ritratto proposto da Christian Braad Thomsen: Il narcisismo esasperato e disperato fuori e dentro la scena , le dinamiche sadiche e masochiste, sempre interscambi ali, nella relazione con un entourage che però gli rimase devoto e riconoscente nonostante la vita al seguito di quest’uomo, capace di trasformare in mitologia sia pop che intellettuale il cliché “genio e sregolatezza”, potesse essere piena di frustrazione, umiliazione, pericolo.

Nel libro di Trimborn avevo effettivamente letto la “testimonianza” della Hermann perdutamente e palesemente innamorata del fascino trasandato e del geniale visionario che sapeva esattamente quello che voleva esprimere, la forma in cui esprimerlo e il modo concreto in cui ottenere tutto questo. Ciò prevedeva anche la manipolazione e lo sfruttamento dei sentimenti delle persone che, come Irm, si mostravano disposte a fare qualsiasi cosa pur di ricevere in cambio un attenzione per quanto a volte si potesse esprimere in violenza verbale o anche fisica, magari nel confine tra realtà e finzione, situazione biografica e racconto, come il reale disagio che la Hermann racconta di aver provato quando il suo personaggio viene picchiato in Berlin-Alexanderplatz, una sensazione sgradevole di cui Fassbinder era a conoscenza e che volle farle provare, spingendo fino in fondo il pedale di un sadismo che non faceva sconti a nessuno, in primo luogo neanche a se stesso.Se Irm racconta tutto questo con l’aggraziato, pacato atteggiamento di una signora della buona borghesia che rievoca una pagina intensa e significativa della propria esistenza, con qualche lampo nello sguardo della Marlene pronta ad offrirsi con immutata abnegazione, anima, corpo e dignità al suo Rainer/Petra, il Fassbinder di cui ci vengono riproposti dei filmati d’epoca ,quello che non ha potuto vedersi invecchiare e che non ha avuto il tempo di elaborare nulla, che non aveva il senso del passato ma solo quello del presente ripiegandoci sopra, fino ad annullarlo, anche il futuro, ci parla, quasi inghiottendo le stesse parole che pronuncia, delle sua visione dell’amore, della società, degli esseri umani, del cinema e di quanto ci sia una connessione profonda e disperata di questi piani con la propria identità di artista ed essere umano, il genio che ha osservato e raccontato se stesso soffocare tra la maglie di un mondo brutale e senza pietà, al quale ha sempre cercato di togliere la patina di compiacenza e rassicurazione, per lasciarci sperduti ma autentici nella spazio tra l’illusione e il disinganno.

C’è in particolare un filmato dai colori desaturati e tetri degli anni ’70, dove Rainer sta seduto in maniera scomposta ed annoiata su una poltrona, appesantito nelle fattezze e nella voce dagli abusi della profana trinità sesso-droga-cibo che aveva innalzato a suo imperativo categorico di una vita votata alla morte nel segno dell’amore, all’interno di un appartamento che probabilmente è o comunque somiglia allo stesso in cui rinchiudeva se stesso, la sua relazione di coppia( con Armin Meier, il compagno poi morto suicida in quel luogo oscuro dove non era giunta ancora Petra e dove arriverà poi l’ Elvira in Un’anno con 13 lune) e la società tedesca, smarrita e spaventata tanto dai terroristi della RAF quanto dalle contraddizioni di uno Stato che nasconde la propria impotenza dietro l’autoritarismo e la repressione, nell’episodio del film collettivo Germania in autunno.

Un videoconfessione che poi ci ribadisce, in un piega più struggente e veramente autunnale che virulenta, quanto Fassbinder fosse poco collettivo e molto individuale, così unico, irripetibile, e di una tale irripetibilità come essere umano e non riproducibilità come esperienza artistica è stato trionfatore e succube, vittima e carnefice.E per chi ne è stato travolto come il sottoscritto, il “regalo” che si porta via dalla visione di questo documentario non sta tanto in chissà quale scoperta o rivelazione, ma proprio nel tono amorevole e nel rimpianto con cui ne parla la Hermann, nell’ammirazione più distaccata ma pur sempre devota di Margit Carstensen(l’ “altra” Hanna Schygulla del suo cinema e della sua vita) e negli occhi dolci di Harry Baer, uno dei collaboratori più stretti davanti e dietro la macchina da presa(fu attore in molti film e poi anche aiuto regista), che descrive il loro rapporto attraversato da un brivido di seduzione ed innocenza, desiderio e tenerezza e trasmette con un sussurro cristallino un assunto, un’aspirazione, una volontà che è rimasta pura utopia…

Amare senza pretese.

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