Strappando una mezz’ora preziosa al gruppo, che non ha smesso di reclamarlo, Basil de Chunha ha accettato di parlarmi del suo film, Ate ver a luz. La sua energia, il suo entusiasmo e il suo rigore sono impressionanti: Basil va a 1000 all’ora e, ne siamo certi, arriverà molto lontano!

Il quartiere di Reboleira

Ho deciso di stabilirmi a Lisbona per un po’ giusto dopo avere fatto un cortometraggio dal titolo A côté (2009) in Svizzera a Losanna con vari immigrati Rumeni, Portoghesi ed altri. Ho sempre voluto lavorare sulla gente che mi sta intorno, che amo e che conosco e per questo ho sempre girato soprattutto con i miei amici, parecchio anche con la mia famiglia e poi con la gente del circondario.

Reboleira, il quartiere in cui abito a Lisbona, è fondamentale per il mio lavoro. Sono andato a vivere lì semplicemente perché gli affitti erano meno cari: poi, nel giro di una settimana, ho conosciuto tutti e siamo diventati amici. Reboleira si trova sulla linea di metro che va dal Rossio a Sintra, in questa zona ci sono ben quattro quartieri popolari-bidonvilles: Damaia, Cova da Moura, Buraca e Reboleira appunto. É importante sapere che questi posti si trovano solo a un quarto d’ora dal centro di Lisbona in metropolitana…

Genesi del film

Até ver la luz fa eco ai miei film precedenti: cerco di mettere in luce delle persone alle quali la società nega normalmente il diritto ad un esistenza nella dignità; nei miei film voglio farne degli eroi per ridare loro, in qualche modo, un po’ di quel rispetto che la società nega loro. Ogni personaggio diventa bello, umano, interessante per quello che é. Voglio andare oltre un certo modo accondiscendente ed univoco di trattare i soggetti sociali al cinema mischiando la realtà concreta con un linguaggio cinematografico aperto alla poesia e dei rapporti umani autentici. Da quando ho iniziato a fare dei film questa è l’essenza del mio lavoro, questo è quanto mi sta veramente a cuore!

Metodo di lavoro

Lavoro sempre con la stessa gente, pur integrando delle nuove persone nuove; ho proceduto in questo modo anche per Até ver a luz, ma da un film all’altro il mio metodo di lavoro si va affinando e diventa, di volta in volta, più esigente. Parto da una sceneggiatura ben precisa con dei dialoghi già scritti, questo mi permette di avere le idee chiare ma non la porto mai sul set; la faccio leggere solo al direttore  della fotografia in modo che si possa fare una specie di découpage in testa anche se poi non gli servirà a gran cosa visto che i luoghi e le scene cambieranno di continuo.

Per me le riprese sono uno spazio di ricerca: sul set faccio esattamente il contrario di quello che farei se invitassi della gente a cena, invece di combinare dei tipi che vanno d’accordo e s’intendono a meraviglia, cerco di creare delle situazioni inattese. Conoscendo già molto bene la gente con cui lavoro scelgo le persone che saranno capaci di creare eventualmente una tensione, di dare origine ad uno scontro.

Le riprese seguono l’ordine cronologico della sceneggiatura; non faccio fare ripetizioni e giro una scena al giorno in vari piani sequenza successivi. Il primo piano sequenza è sempre una ripresa d’insieme: filmo da lontano per avere un’idea generale di cosa i miei personaggi potranno o sapranno propormi. All’interno di ogni scena inserisco poi sempre anche due o tre persone di cui so di potermi fidare e che agiscono un po’ come dei complici della messa in scena. Posso sempre contare sul loro aiuto; quando, per esempio, una scena rischia di protrarsi troppo per troncarla al momento giusto.

Ogni nuova ripresa della stessa scena non è una mera ripetizione, cerco sempre di aggiungere un nuovo elemento, una piccola diversione capace di provocare delle reazioni diverse; qualcuno per esempio che lancia delle pietre da un muretto su un gruppo che sta parlando…

Lavoro con un’unica cinepresa scrutando attentamente chi nel gruppo mi offre di più, chi è più generoso, chi verrà naturalmente ad imporsi come protagonista, poi mi avvicino a lui con l’obiettivo tolgo delle cose, ne aggiungo altre e strutturo l’insieme.

Ho sempre ben chiaro l’inizio di una scena, il suo punto di volta e il modo in cui una scena deve finire: questi punti fissi mi offrono un canovaccio intorno al quale l’improvvisazione dei personaggi può svilupparsi senza diventare una massa caotica.

Alla fine di ogni giornata di riprese devo sempre riscrivere la sceneggiatura perché ci sono degli eventi che si sono prodotti troppo in anticipo o, al contrario, in ritardo rispetto al mio piano iniziale.

Il modo con cui lavoro è un po’ come l’improvvisazione nel jazz; un processo libero ma più o meno controllato… certo è un metodo rischioso perché la realtà sul set è imprevedibile…

Con questo tipo di materiale il montaggio è un lavoro capitale; me ne occupo personalmente, in fin dei conti si tratta di riscrivere, ancora una volta, tutto il film!

Il fascino della notte e Sombra

Adoro la notte! Io non vivo di giorno ma di notte! E poi ho un culto per i marginali e le minoranze; sono le persone che mi stanno intorno che frequento e alle quali ho voglia di rendere la loro dignità. Voglio di farne degli eroi. Questo è il mio mondo; i miei personaggi provengono da questo mondo e li amo tutti indistintamente.

Il protagonista del film, Sombra, non è giudicato dagli altri per quello che fa ma per il suo modo di essere, per la paura, il disagio che crea negli altri a causa della sua stranezza, della sua diversità. Sombra è un po’ come un morto vivente, un essere crepuscolare, un samurai solitario…

Sognare è vitale!

Nei miei cortometraggi ho sempre cercato di mostrare che agli uomini si può togliere tutto ma non i loro sogni. Anche dalla realtà quotidiana più frusta le persone possono evadere sognando; ecco perché spesso nei miei film l’atmosfera è onirica, sospesa, in bilico fra realtà e fantasia. Ho spesso dei momenti di impeto lirico, é un qualcosa che adoro e che è entrato a fare parte integrante dei miei film.

Il mio é un mondo di uomini ma la presenza femminile è forte, essenziale.

Il mondo del film è quello delle gang di quartiere; per forza di cose si tratta di un universo maschile. Le donne appartengono ad un’altra dimensione, quella degli affetti, del focolare, della famiglia. Per questo volevo che nel film ci fosse una sorta di figura materna; Susana Maria Mendes da Costa che impersona il ruolo della zia di Sombra è una donna eccezionale dal carattere molto forte anche nella vera vita, non ho quasi avuto bisogno di dirigerla, ha saputo subito cosa fare e come farlo!

E poi c’è Clarinha, la bimba: Clarinha è una piccola principessa per me! Le voglio molto bene, la vedo tutti i giorni ed ho sempre voluto che partecipasse a uno dei miei film. La bimba rappresenta appunto l’innocenza, la purezza in una comunità chiusa su se stessa dove regna il sospetto e il tradimento.

Miguél Gomes versus Pedro Costa

Non posso negare che ci siano dei punti di convergenza con Pedro Costa; abbiamo una s
tessa fede in comune, la fede negli individui marginali. Entrambi desideriamo ‘illuminare’ le nostre scene con dei primi piani sui volti anche la scelta dei colori è molto simile ma il nostro modo di rapportarci a queste comunità è diverso: io vivo nello stesso luogo con loro e ne condivido la vita quotidiana; l’approccio di Pedro Costa invece e molto più cerebrale.

Non posso dire di essermi ispirato ad uno o più registi, almeno non l’ho fatto in modo cosciente; ho cominciato a lavorare nel cinema in maniera, direi, artigianale.

Detto ciò in Portogallo c’è un regista al quale io devo moltissimo; mi riferisco a Miguél Gomes. Il suo sostegno è fondamentale, Miguél è sempre pronto ad aiutarmi nei momenti di dubbio, spingendomi ed incoraggiandomi ad andare sempre nel fondo di me stesso per cercare l’ispirazione.

Il prossimo progetto

Sarà un road-movie… finalmente riuscirò a scappare dal mio quartiere! (ride)

Foto di Maria Giovanna Vagenas

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