Utile e necessario. Un film che racconta. Pellicola che decide di parlare, dopo i famosi trent’anni di silenzio che molto possono e molto significano. Attraverso un film difficile da fare e facile da assorbire. Bello nella sua artigianalità. Tagliato con le mani e non privo di piccoli, discutibili, significativi colpi d’accetta. In un clima culturale di film sospesi tra romanzo accattivante e bozzetto storico un po’ radical, questa piccola robusta fatica italiana punta decisa (per citare due diciture critiche datate anni ‘70 ma valide tutt’oggi) al cinema politico o di impegno civile. Film storico a tutti gli effetti e a tesi in una sua non troppo piccola parte.

Raccontare la vita e la morte di un personaggio come Guido Rossa è un atto doveroso per un paese maturo e sviluppato. Peccato che a vedere il film saranno solo quelli che già sanno: la solita truppa cinefila che poi passerà la sera a discutere se il film vale o non vale, o il vecchio manipolo impegnato politicamente. Spesso schierato a priori o contro, o a favore del lavoro. Antiche frange, orgogliose nicchie, piccole macchie, isole protette, buffi sgabuzzini di “Casa Italia”. Tutto il mare umano che non frequenta questi anfratti riempie altre sale, specialmente quelle da Americanata, da ballo, da birra, da accoppiamento, da abbronzatura, in questo pieno luglio italiano. Il film è uscito a Roma in due sole sale. Ora regge in una. A Reggio Calabria non arriverà, e nemmeno a Voghera. Ma nemmeno a Parma o a Salerno lo vedranno. Altro che centinaia di copie, qui c’è gente che ama andare al cinema e che di questo film non ne sa nulla. E se il lungometraggio di Giuseppe Ferrara è un fatto storico e cinematografico rilevantissimo, l’indifferenza che lo accompagna lo è altrettanto. Più che pazienza, peccato. Chiedete in giro chi è stato e di cosa è morto Guido Rossa. Quasi tutti diranno di non saperne nulla. Non solo di come sia finito ma anche di chi fosse. Il film è invece un pezzo di Storia mai raccontata dal cinema: se non è un merito questo… E’ storia doppia, pubblica e privata, narrata con chiarezza e sostanza, con preziose perle di realtà repertoriale infilate nella finzione nel culmine della sua potenza emotiva. Arguzie di verità che fanno perdonare con facilità i difettucci di fabbricazione di un prodotto anti-industriale e rustico. Perfettamente capace di prendere cervello e pancia insieme, e farli comunicare tra loro portandoli all’unanime conclusione che Guido che sfidò le Brigate Rosse è un film da vedere e far vedere. Una tessera del “puzzle italiano” introvabile finora, e finalmente consegnata a quei cittadini interessati alla memoria ed al passato di un paese che nonostante tutto li riguarda da vicino. Quella bruttissima faccenda, quel sacrificio e quel dolore umani, impaginati efficacemente dalla scrittura ferrariana, hanno rappresentato qualcosa per la storia italiana e molto per quella delle Brigate Rosse. Da lì prese velocità la parabola discendente del movimento rivoluzionario fondato da Curcio e compagni alcuni anni prima.

Inverno 1979, Genova, mattino presto. L’operaio dell’Italsider e sindacalista della Cglil Guido Rossa, viene trivellato di colpi da un commando armato proprio sotto casa sua. Poco più tardi una telefonata rivendica l’omicidio sotto la sigla BR, colonna genovese. Non è l’incipit del film, è l’epilogo. Quasi a dimostrare che di artifizi narrativi non si è cercato abuso o possibilità. Anzi, gli elementi personali, privati, autobiografici che compaiono nel film, sembrano esser stati scelti a fini comunicativi e mai narrativi. Rischiosamente e non senza divenire causa di irrilevanti punti di penalizzazione. La storia inizia con un uomo attivo nella “guerra civile” italiana e si sviluppa attraverso una corposa descrizione del mondo BR. Sulla bilancia del film il peso occupato dal protagonista è pari a quello esercitato dai terroristi. Se di lui si racconta il mix cristallizzato di pubblico, politico e privato, dell’interno brigatista si tratteggia, senza tremolii, l’identikit di un sistema di valori ed emozioni identico e parallelo a quello borghese combattuto con le armi. Guido Rossa è certamente buono e giusto, lineare e non contraddittorio: quello che si dice un grande uomo. Però non è mai sovraccarico di qualità, le sue parole non sono mai troppe o troppo belle. Il film dà la sensazione che ci sia effettivamente stato un uomo di spessore dal nome Guido Rossa. Il mondo BR, invece, teso e tosto come mai era stato raccontato prima, pare scolpito con una irriverenza insolita per il cinema italiano. Non sono rari i tentativi autoriali di comprendere l’incandescente “armata rossa”. I cosiddetti compagni che sbagliavano. Ferrara lo fa dire chiaramente al sindacalista: non si tratta di compagni che sbagliano, ma di persone che sbagliano e basta. I registi italiani (Bellocchio, Bertolucci G. e B., Amelio) si avvicinano spesso con domande, sguardi approfonditi e analitici, pudici, rispettosi e garantisti. Il film di Ferrara, invece, tratta il gruppo armato genovese come un’organizzazione criminale, crudele e spietata, che adotta la lotta rivoluzionaria senza la purezza d’animo a cui eravamo abituati. Dei terroristi si evince l’arrivismo, l’ambizione personale, la scelta politica come sterzata definitiva da una vita misera e sofferente. Colpisce l’abbraccio che sottoscrive il passaggio di grado del brigatista Simone (un attento Gianmarco Tognazzi) all’indomani dell’esecuzione del sindacalista. Alla sceneggiatura ha collaborato Alberto Franceschini, oltre che – pare evidente anche se non è esplicitato nei titoli – i familiari della vittima. Al di là di questa feroce descrizione delle Brigate Rosse, il film risulta un documento importante per il rapporto già fortunato tra storia e cinema italiani.

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