Prima di tutto un avviso ai naviganti: il film è in inglese con sottotitoli italiani. Chi conosce il tedesco, ma anche chi senza conoscerlo è in grado di riconoscerne i suoni perché ha familiarità con il libretto di Schikaneder, potrebbe essere colto da un leggero malore. Niente paura, dura qualche minuto (nella sua forma più estrema) e anche se si protrae fino alla fine non disturba troppo la fruizione del film, anche perché la versione messa a punto da Stephen Fry contiene numerose modifiche rispetto all’originale. I puristi mozartiani storceranno forse un po’ il naso davanti alla decisione di sacrificare in parte lo spirito fiabesco del genio di Salisburgo a causa dell’ambientazione bellica: il fatto che Branagh abbia scelto la Grande Guerra e non, ad esempio l’Iraq di oggi, tuttavia, permette di mantenere la sua dimensione storica di film in costume, allo stesso tempo così lontano e così vicino dalla realtà di oggi. Se è vero infatti che sono stati inseriti numerosi riferimenti alla guerra e alla sua insensatezza che possono sembrare troppo genericamente ecumenici e riconciliatori, non va dimenticato il messaggio dell’opera originale sul trionfo della virtù e della giustizia, in particolare nell’aria di Sarastro, tutta incentrata sulla necessità del perdono. È ovvio che l’ex enfant prodige britannico sarebbe stato in grado di mettere in scena una perfetta rappresentazione tradizionale dell’opera, come ha fatto a suo tempo con Shakespeare, tuttavia la decisione di uno spostamento temporale e della focalizzazione su un tema tornato così tristemente attuale rivela il suo desiderio e la sua capacità di mettere alla prova il suo talento e al contempo di denunciare i pericoli dello sterminio indiscriminato che i conflitti trascinano con sé.

Sul piano formale, inoltre, Branagh riesce nella non facile impresa di realizzare un continuo caleidoscopio di invenzioni formali (spruzzate qua e là di citazioni kubrickiane e felliniane) che centrano quasi sempre il bersaglio: ha il merito non solo di interpretare con brio i momenti più buffoneschi di Papageno, ma anche di rappresentare nella chiave oscura che lo caratterizza la famosissima aria della Regina della Notte, di consueto fischiettata come un allegro motivetto, in realtà una drammatica sequela di maledizioni da madre a figlia che costituisce uno degli snodi narrativi più drammatici. Se poi, soprattutto nell’ultima parte, l’inventiva di Branagh sembra mostrare un po’ la corda (vedi il ripetersi un po’ stanco di non necessarie inquadrature e panoramiche dall’alto), e il messaggio politico si fa troppo scoperto (la distesa di lapidi del cimitero di guerra), che importa? Male che vada si passano due ore ad ascoltare la più perfetta opera musicale mai realizzata, e non è poco.

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