Gus Van Sant è regista degli spazi, dei corpi, dei volti. Il suo non è mai stato un cinema dichiaratamente e apertamente politico e lo stesso Milk, pur essendo la biografia del più rappresentativo esponente del movimento di liberazione omossessuale, nonché primo esponente delle istituzioni statunitensi apertamente omosessuale, in realtà tendeva ad esplicitare, ad indagare la dimensione umana e affettiva di quel personaggio, creando delle suggestioni anche melodrammatiche (l’amante suicida, il finale sull’immagine di Maria Callas).

Si potrebbe sostenere che il cinema di Van Sant, o meglio il suo sguardo, ha una valenza di per sé politica sia per i soggetti che sceglie di filmare che per il modo in cui li filma. E da questo punto di vista Elephant possiede un contenuto altrettanto politico rispetto a Bowling a Columbine, il documentario di Michael Moore sull’orrenda strage di adolescenti in un liceo del Colorado, pur dando un taglio più esistenziale e simbolico, partendo dall’esporre le fenomenologia di quella situazione quasi in presa diretta, per far toccare e sentire le inquietudini, le angosce, il senso di vuoto e di smarrimento, e per contrasto, la vitalità e la bellezza di una generazione che dovrebbe essere l’Humus su cui si rigenera la società a cui appartiene, e che invece ne diventa l’agnello sacrificale, il catalizzatore insanguinato di disfunzionalità e malessere.

Politica e società sono dunque parole che esistono nel cinema di Gus Van Sant, ma nella loro accezione filosofica e culturale e in una riflessione che mette in gioco più che il nostro rapporto con l’esterno, con la contingenza, con il momento storico, la definizione di noi stessi e delle scelte che facciamo.

Questo scavare, andare in profondità, sviscerare l’umanità (e l’universalità) dei personaggi, rimanendo aderenti alle azioni, ai gesti, ai comportamenti a volte può però trovare un ostacolo, un macigno più duro degli altri da perforare per far passare il movimento della mdp da verticale ad orizzontale. E il macigno contro cui questa volta sbatte lo sguardo di Van Sant è il volto da bravo ragazzo americano un po’ ingrigito dagli anni che passano appartenente a Matt Damon, che di Promised Land è probabilmente il vero autore davanti e dietro le quinte, essendone, oltre che il protagonista maschile, anche sceneggiatore e produttore.

Diciamo subito che il soggetto è interessante e abbastanza inedito e rientra in quel nobile filone del cinema socialmente impegnato che, almeno dagli anni ’70 in poi, ha fatto emergere con forza tutta la sensibilità progressista ed ecologista di almeno tre generazioni di divi hollywoodiani, a cominciare dal binomio Paul Newman-Robert Redford per arrivare a George Clooney, Brad Pitt e Angelina Jolie e, appunto, Matt Damon.

Qui l’ex Will Hunting e Jason Bourne, interpreta Steve, l’addetto alle transazioni di una grossa società produttrice di gas naturale, che gira i sobborghi rurali delle zone più povere degli Stati Uniti, per comprare le fattorie da contadini indebitati e disperati e trivellarne la terra per estrarre il gas, offrendo in cambio la tentazione immediata di una valutazione monetaria e la promessa, più vaga e a lungo termine, di guadagni anche milionari.

Un personaggio scritto e descritto con una buone dose di ambiguità sulla linea sottile che divide il cinismo e la disillusione dall’inconsapevolezza e l’ottusa convinzione di fare la cosa giusta (cresciuto anch’egli in un sobborgo di provincia, una volta chiusa la fabbrica della Caterpillar che portava lavoro e ricchezza, Steve ha visto spegnersi e morire, svuotare dice lui, la sua città) e che Damon, appesantito, leggermente ma non troppo, nel corpo e con un’aria dimessa da ormai post-post-fine del sogno americano, rende piuttosto bene o almeno diligentemente.

Ma il buon MattSteve vuole e deve riscattarsi perchè l’intenzione di mandare un messaggio preciso per risvegliare la coscienza di un paese che, mentre ha continuato nell’ultimo decennio a fare guerre all’estero, in realtà tendeva a ripiegarsi su se stesso, sfruttando in maniera vampiresca e subdola le proprie risorse naturali, per interposte la precarietà, la frustrazione e l’ignoranza delle classi più povere. Questo messaggio dunque e le riflessioni che suggerisce sono tutt’altro che scontati o superficiali e possiedono una notevole dignità etica e un’evidente acutezza, considerando che Damon racconta da dentro il sistema, in cui certi meccanismi e ragionamenti dietro la facciata dei grandi moloch industriali si perdono nel perseguimento di un ideale artefatto di benessere.

Il problema, almeno per chi scrive, è che tale riflessione con tutte le sue implicazioni rimane, appunto, a livello orizzontale, secondo un’idea estremamente classica di condurre la narrazione e la presa di coscienza del personaggio e, con lui, di una precisa classe sociale di un paese (i bianchi Wasp benestanti), un personaggio che alla fine non era cosi ambiguo e al contrario così ingenuo e pure da scoprire, lui tanto fedele e ligio al dovere, il doppio gioco della società da nove miliardi di dollari per cui lavora, lo smacco più l’onta ultima, il peggiore tradimento: come dire, sono io quello che dovrebbe fregare i bifolchi per voi, invece siete voi a fregare me?

Letto in quest’ottica il personaggio guadagnerebbe in contraddizione e in complessità psicologica, ma è chiaro che la trasformazione in onesto e coraggioso paladino della verità davanti ai cittadini campagnoli pieni di speranze e voglia di riscatto Matt/Steve lo fa dettato da ben altri principi: dagli incontri con la saggia e incantevole ragazza del posto che fa la maestra e gli insegna l’importanza di prendersi cura delle cose e con il saggio e autorevole anziano del posto che gli spiega come la terra sotto i piedi sia tutto quello che rimane a chi fa il contadino.

Ora, Van Sant sembra non essere immune alla retorica o comunque a un certa semplificazione hollywoodiana, quando entra in contatto con quello che è volente un system (che sia studio o star) come nel citato Will Hunting o Scoprendo Forrest o il citato Milk.

Eppure riesce a conservare un suo tocco o, più propriamente, quello sguardo che coglie i particolari, lo sfondo paesaggistico ed umano e lo fa emergere, seppur non secondo il rigore e la precisione di una fenomenologia, in attimi, momenti, fotogrammi più autentici e intensi dell’alquanto atteso processo di trasformazione un po’ facile del divo politically correct di turno.

Così ciò che dà forza all’oratoria conclusiva di Matt/Steve è il controcampo di quei volti anonimi, sfatti, invecchiati precocemente, stanchi, ingenui, colti in una smorfia di indolenza o in uno sguardo pieno di fiducia, rancore o smarrimento ed è su questo contro campo che si impone, con dignità e silenzio, il sentimento di ingiustizia di un popolo illuso, sfruttato e poi abbandonato, i figli diseredati e di seconda classe di un Paese che da padre è diventato padrone.

Lo sguardo e il suo movimento salvano anche il brodo dell’happy end con Damon che fa la doppia scelta giusta: si ribella alla sua cinica e indifferen
te padrona, la Supercompagnia del gas, peraltro simbolicamente incarnata dalla collega (lei sì, veramente ambigua) di Steve, con il duttile corpo attoriale di Frances McDormand a prestarle ora l’aspetto bonario e colloquiale, ora il tono secco e disincantato. Torna al femminile rassicurante e materno con la dolce maestrina che l’accoglie nella sua casa con fattoria annessa per una vita condivisa nel segno dell’autenticità.

Solo che la panoramica dall’alto e all’indietro sulla cittadina dove si consumerà l’idillio tra Steve e la sua nuova ragazza, ci ricorda che la Supercompagnia alla fine vincerà e si approprierà anche di quei territori, di quelle fattorie, di quel modo di vivere e che tutto, se non è già sparito, sta sparendo come sul nero dove scivolano lentamente i titoli di coda rendendo, di fatto, la vittoria morale ed etica del personaggio di Matt Damon se non proprio una sconfitta, il segno del tramonto di una certa idea di umanità.

Questo però non ce lo dice l’onesta piattezza della scrittura o della perfomance, ma la potenza simbolica di un’immagine, di un movimento di macchina. Il cinema di Gus Van Sant.

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