Buio.

Il giorno è uguale alla notte.

I tuoi occhi sembrano chiusi e sono aperti

(..)

Puoi amare la luce-

Ma prenditi se occorre un’ora di

Buio

(Egle Palazzolo, da Pareti di carta, Salvatore Sciascia Editore, 2019)

di Alessia Brandoni/ Siamo precipitati in una crisi che spaventa e che lascia sgomenti. Che sembra non finire mai. I resti dei traumi collettivi non elaborati –dal momento che il piano politico e sociale è ai minimi storici e che la comunicazione dei media passa indifferentemente dal disquisire sul buon uso della bomba atomica all’ultimo topic subumano in onda su tik tok, mentre Twitter, tramite uno psicopatico che si vorrebbe immortale, spinge ancora più in là l’aggressione padronale contro i diritti dei lavoratori- , i resti del trauma, dicevamo, stanno segnando, in modo opaco ma tangibile, le esistenze e i corpi dei singoli -elementi contraddittori in forma di sintomo (da qui un cinema che, ancor più di prima, tenta d’usare un metodo coerentemente “sintomatologico”). Si fa a gara a chi la spara più grossa, tanto l’attenzione richiesta non supera il minuto, e a chi decide che sparare sia l’unica soluzione possibile, e tanto vale farci sopra un bel po’ di demagogia muscolare, che frutta audience e obbedienza. Il dubbio, la riflessione, il guardare la complessità di ciò che accade, e che potrebbe non accadere o accadere differentemente, la verifica e la cautela nell’indicare colpevoli, mai come ora se ne stanno in disparte, derisi dai più. 

Roberto Esposito, filosofo napoletano, a proposito di pandemia e guerra ci avverte di come i sistemi immunitari, tanto medici quanto legali, siano necessari ma al tempo stesso, laddove venga superata una determinata soglia, diventino pericolosi. Di come il pericolo si inneschi quando le modalità di difesa si espandono oltre la soglia umana consentita, impoverendone a tal punto la socialità e l’autonomia decisionale che poi si fa fatica a capire che tipo di individuo ne possa venir fuori –lasciamo perdere la soggettività attiva e politica, felice, pensata da Hannah Arendt proprio a partire dalla valorizzazione della dimensione pubblica, sociale e creativa dell’esistenza umana. Senza dimenticare infine, sempre con Esposito, come l’unica difesa dalla malattia individuata come efficace, abbia fatto sì che nei nostri corpi si sia introdotta una particella di quello stesso male, che può uccidere, al fine di provocare delle reazioni salvifiche chiamate anticorpi. Tutto ciò è chiaramente enorme, se solo si pensa alla ricaduta sulle condotte e sugli inconsci, sugli immaginari, al punto che si sono dovute aggiornare le riflessioni su questioni come rimozione, negazione, vie di fuga e sofferenze psichiche.       

Ma la tentazione di ridurre il problema e di rifugiarsi in facili soluzioni non sembra aver fatto accoliti qui al 40° TFF, o almeno non sembra aver contagiato una parte consistente della proposta festivaliera, centrata sull’indagare le maggiori questioni che rendono problematica e spesso angosciosa la nostra contemporaneità -sotto scacco da parte di una minaccia che va a colpire la nostra più profonda visceralità, il tempo base e la fiducia base da cui poter poi partire, andare.  

Abbiamo perso il contatto dei corpi. Senza tenerezza, senza amore e passione, senza contatto, senza uno spazio pubblico e sociale, la pulsione e l’affettività, la sfera emozionale insomma, finisce per pervertirsi, i pensieri non possono far altro che avvitarsi, correndo il rischio dell’annullamento. I film presi in considerazione sembrano, appunto, trattare di questo. Ma nel farlo scelgono -beckettianamente, godardianamente, al modo, che già ci manca, di Straub-Huillet- la rappresentazione che ci mostra la complessità del ‘come’ avviene (questa scomparsa), agli antipodi della narrazione-indice puntata sul ‘perché’ (che in questo modo rimane, virtuosamente, un fuori campo espanso dove avventurarsi per trovare risposte singolari).

Ecco allora la violenza e la sensibilità in EO (dello spericolato, magnifico Jerzy Skolimowski, cineasta, scrittore e poeta nato a Łódź e premiato all’ultimo festival di Cannes per la regia); la nevrosi leggera e pensosa della parola in O trio em mi bemol (di Rita Azevedo Gomes, filmmaker portoghese, tratto dall’unica pièce di Eric Rohmer); la de-realtà di Coma (del francese di Nizza Bertrand Bonello, girato durante il tempo dei lockdown, con focus sugli adolescenti e premio Fipresci all’ultima Berlinale), in cui a viaggi e utopie, topoi d’altri tempi, forse più innocenti, si è sostituita la fissazione -occhi e menti-  verso/contro gli schermi, un incubo controllato dal mai cosi oscuro e osceno “discorso del capitalista”, a farne le spese più degli altri gli adolescenti.

Ci sono dispositivi e simboli, a darci la bussola in questi tre magnifici film –del quarto, il più sconvolgente forse, cioè Pacifiction, film fluviale (durata 163’) dello spagnolo Albert Serra, se ne parlerà più approfonditamente in una riflessione dedicata.  

C’è la figura/gesto della “sfera” e c’è l’”uomo quadrato” nell’inizio di EO, ambientato dentro lo spazio nomade e ambiguo del circo, dove si alternano senza soluzione di continuità tenerezza e violenza, amicizia e rapporti padronali, quotidianità minima e accensione spettacolare. Il cerchio illuminato di rosso, calato dentro la forma espansa di una tessitura sonora stratificata ed enigmatica, è lo spazio libero della compresenza degli elementi, del corpo dell’asino chiamato EO e del suo verso (EO è onomatopea ed è simbolo), dell’esistenza nel qui e ora di un sentire esteso, colto con i sensi, e in quella che si svolge in un arco di vita che è anche la traiettoria di una narrazione possibile; l’uomo quadrato, invece, è la prima delle figure parodiche o grottesche che Skolimowski dissemina imprevedibilmente nel corso del film, prendendo di mira vuoi quello che è diventato il farsi-progetto vuoi il gioco iniziatico e il comune sentire (l’assurda partita di calcio influenzata da EO e il branco di redneck di zona che distruggono tutto). Nel film ci sono molte soggettive dell’asino, di EO, che disorientano lo sguardo soppesante o pigro di chi guarda, in cui il regista sembra tentare (felicemente) di farci fare l’esperienza di uno sguardo animale; e ci sono altrettante soggettive libere indirette, con cui Skolimowski si mette accanto ad EO con grande attenzione e intimità (e con precisa maestria, tanto che le scene con gli animali sono più riuscite di quelle con gli attori, a volte troppo sopra le righe e anche nel caso in cui il contrasto tra i due linguaggi fosse l’obiettivo dichiarato del regista). E’ chiaro il riferimento al Balthazar di Bresson (l’animale buono, la vittima della coscienza umana corrotta, la possibile epifania) ma se lì la riflessione, pur nella tattilità, (suggerita acutamente da Deleuze in L’immagine-tempo), e nella pietas cui induce l’inermità dell’asino, si visualizzava nelle domande sul perché del Male e sul rapporto cristiano tra libertà e grazia, l’Eo di Skolimowski sembra mosso più che altro da necessità e sentimenti quasi umani (anzi, meglio di quelli umani). Seppur nel clima in primo luogo sensoriale, il film pare infatti essere attraversato dai sogni e ricordi dell’asino, e ancor più dal suo voler tornare tra le braccia amorevoli della ragazza del circo. In questo senso il film è sciabordato da una vena romantica e melò e insieme sostenuto da una critica della violenza, critica che, nel pensiero del regista polacco, che ha visto il padre, membro della resistenza, venire giustiziato per mano dei nazisti, appare fondarsi a partire da una critica radicale dell’antropocentrismo: la violenza umana si sviluppa a partire da quella agita sugli animali, come d’altronde già esortava a capire Empedocle d’Agrigento.           

Nel film della regista portoghese, O trio em mi bemol, (titolo riferito allo splendido Trio in mi bemolle maggiore, pezzo da camera per clarinetto, pianoforte e viola composto da Mozart nel 1786 e considerato uno dei primi tentativi di inserire la dissonanza nel dialogo di una partitura musicale), un primo livello di lettura potrebbe condurci a pensare come la nevrosi scaturisca dall’incapacità di cogliere le cose con i sensi, trovando rifugio nella sintomatologia di discorsi senza fine (o come si sarebbe detto un tempo, considerare come lo stesso discorso sia la verità delle cose). Ma ad andare oltre lo schematismo, che pure serve alla regista, e prima di lei al grande Rohmer, per provocarci -una sfida vitale si direbbe-, si può avvertire presto un fecondo slittamento tra corpi e parola, tra musica e linguaggio, tra il tempo del momento (“per il momento”, frase ripetuta in continuazione dai protagonisti quasi fosse un rituale, o un esorcismo), il qui e ora, e quello della durata, cioè il tempo delle complicazioni che deriva dalla pluralità delle scelte in campo, dalle differenze che si manifestano nel tempo della ripetizione. Azevedo Gomes ci mostra tramite l’utilizzo del piano sequenza la grazia del gesto e di un sentire corrispondente e insieme il contrasto che emerge, appunto, dalla differenza che si dà nel tempo. La regista usa il piano sequenza come fosse un dispositivo, o una partitura, con cui mettere in relazione tutto ciò che lo attraversa: corpi, voci, sguardi, note al piano, vasi, maglioni, umori, specchi, finestre, colori, luci, fino ad arrivare alle stesse performance attoriali, alle pause sul set, e poi ancora alla magnifica fine, in cui, tramite una richiesta assurdamente dispotica (come l’arbitrio?) da parte del regista del film (c’è un film nel film e c’è una pìece teatrale nel film del film, altri slittamenti…), si palesa la ripetizione in quanto ripetizione, e da qui la parola detta in quanto parola –l’enunciato soggettivizzante, il tentativo di comunicare con qualcuno che sempre sfugge (al controllo, cos’altro?), il respiro vitale di un animale che (togliendosi la mascherina) prende la parola per la prima volta.

In conclusione Coma di Bertrand Bonello, film disturbante, in cui la minaccia pandemica è più esplicita, anche se non viene mai nominata, e in cui l’isolamento e la distanza sociale vengono mostrati nelle forme che  abbiamo sperimentato quasi tutti, ovvero lo stare in casa, o meglio, se si pensa alla vita di un adolescente, lo stare chiuso in camera. Qui le ricadute sulla soggettivazione in fieri si fanno apertamente più crude e dure -dolore psichico, difesa e paranoia. La realtà la vediamo metro per metro scomparire. Mangiata da schermi che parlano del nulla, di cose che non esistono se non nelle proiezioni mentali di chi le afferma, o rimpiazzata da tutorial onniscenti che discettano sulla qualunque -ma anche loro hanno dei momenti di sconforto, sembrerebbe. 

Il dispositivo qui assume una forma chiara e riconoscibile: è il giochino chiamato il Rivelatore, stile vecchio Super Simon, per capirci, in cui l’illusione suggerita è quella di poter sviluppare memoria e potere di controllo, mentre invece quello che accade davvero, sembra dirci Bonello, è che uno strumento (prezzato per tutti) dopo vari usi diventi una dipendenza, e lo diventi sia su un piano psicologico, colmando il vuoto, sia su quello cognitivo, finendo per alienare la memoria in abitudine e il potere di controllo in automatismo. Bonello, anche qui con continui slittamenti, in particolare attuati con l’uso del sonoro, raffinatissimo, con l’utilizzo di citazioni, con l’inserto di animazioni e soprattutto con la creazione di uno spazio inafferrabile, sul bordo del reale, tra la vita e la morte, un bosco iperrealista in cui la protagonista, e noi con lei, veniamo a più riprese immersi, ci fa fare esperienza del disorientamento più radicale. Tra le citazioni utilizzate da Bonello significativa è quella attribuita a Deleuze, (in Che cos’è l’atto di creazione?, del 1987), che tramite la forma domanda –Che cos’è un’idea nel cinema?-  suggerisce a degli studenti la seguente ipotesi, che si riporta per esteso: “Direi anche – cerco di farlo velocemente – che un’idea è qualcosa di molto semplice; ripeto, non è un concetto, non è filosofia. Un concetto è un’altra cosa; da ogni idea si può forse tracciare un concetto. Penso a Minnelli. A me sembra che in Minnelli vi sia un’idea straordinaria sul sogno. Si può dire che sia un’idea semplice e che sia strettamente connessa con tutto un processo cinematografico che è l’opera stessa di Minnelli. La grande idea di Minnelli sul sogno, a mio parere, è che il sogno riguardi prima di tutto coloro che non sognano affatto. I sogni di chi sogna riguardano coloro che non sognano, ma perché li riguarda? Perché dal momento in cui vi è un sogno dell’altro, vi è pericolo. Forse i sogni delle persone sono sempre sogni divoranti che rischiano di inghiottirci. E che gli altri sognino, è pericoloso; e che il sogno sia una terribile volontà di potenza; e che ciascuno di noi sia più o meno vittima del sogno dell’altro, anche quando si tratta della fanciulla più graziosa. Anche quando si tratta della fanciulla più graziosa è un divoratore terribile, non per la sua anima, ma per i suoi sogni. Diffidate del sogno dell’altro, perché quando siete presi nel sogno dell’altro, siete fottuti. Con un movimento felicemente contradditorio, Bonello dichiara di voler entrare dentro il sogno della ragazza (che rimanda a quello della vera figlia, destinataria di una splendida e partecipata lettera recitata a inizio film), ma nel farlo inserisce la sua rappresentazione (sfida vitale, anche qui) di cosa sia un incubo e la sua accusa contro il sogno-incubo dei media, divoratori della realtà dei ragazzi. Inoltre Bonello inserisce, quasi en passant, frasi di questo tipo: “senza controllo e senza decisione non c’è più libero arbitrio”. Eppure, proprio a partire dall’ambiguità di una frase di questa portata, nonché dallo scorrere di immagini quasi sempre con più livelli di lettura e oscillanti sui margini del reale, lo spettatore può porsi le sue domande. E può quindi, tra le tante, tentare una risposta: fare esperienza della crisi è il luogo dove potersi porre delle domande e dove poter quindi cambiare, laddove il cambiare può investire anche la stessa idea etica e politica di soggetto moderno, libero e onnipotente. D’altronde è la realtà contemporanea, sembra suggerire Bonello, a dirci di questa crisi: pupazzi che parlano a vanvera, persone che non comunicano più, l’isolamento come condizione permanente che provoca rabbia e vuoto emotivo, a partire dal corpo, e che va riempita in qualche modo (con il dolore, con il farsi del male, con il sesso oggettivato). Si continuerà a stare in casa perché tra non molto farà una temperatura non più sopportabile per gli umani, profetizza Bonello. I ghiacciai si stanno sciogliendo e prima o poi tutto tornerà fuoco.

Ma appunto, quello che rimane da queste visioni, anche da quelle più apocalittiche, quelle più spinte in terra straniera, è la necessità di mantenere, come dispositivo, come gesto, come idea, come qualcosa che, al dunque, si può anche imparare, una pratica di misura: modalità, questa, con cui provare a riconoscere la differenza che pure c’è tra la potenza e l’atto, il fantasma e la realtà, la notte e il giorno. Tutti corpi esistenti, tutti anche corpi attoriali, ma tutti quanti, e ciascuno a modo proprio, corpi differenti, corpi esposti all’ora del buio e a quella della differenza. 

“L’ambiente straniero mi uccideva. Ricordo che mi svegliai del tutto da questa tenebra una sera a Basilea, al mio arrivo in Svizzera, e mi svegliò il ragliare di un asino sul mercato cittadino. Quell’asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello”

(Miskin, nell’Idiota di Fëdor Dostoevskij)

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