di Fabrizio Croce/”Il passato non è ciò che è scomparso ma ciò che ci appartiene.Ciò che ci appartiene sono i nostri ricordi insieme“(Mathieu Amalric in I re e la regina di Arnaud Desplichin)

Chissà cosa avrebbe detto Francois Truffaut di alcuni dei  documentari premiati in questa edizione del Perugia Social Film Festival 2016 che , per comodità e  ispirazione , ci siamo abituati a chiamare PerSo:  a un certo punto sembrava che molti  filmaker avessero la necessità di rivolgere la mdp dallo spazio sconfinato e ignoto di realtà  distanti, geograficamente e culturalmente, agli spazi,  meno sconfinati ma altrettanto ignoti, delle dinamiche relazionali di famiglie spesso attraversate dal lutto, dalla perdita, dalla separazione; sguardi impegnati a ricostruire o a decostruire  schegge di sangue e insanguinate di legami scombinati dalle imprevedibili traiettorie della vita che accomuna tutti nella possibilità di essere padri, madri e figli e che si rivela,  in processi unici e irripetibili per ogni storia, sotto forma di parziali e talvolta false verità.

Proprio Truffaut, di padre ignoto, ad un certo punto della sua esperienza di uomo e di cineasta, cominciò ad indagare sulle proprie origini, a ricostruire un vicenda familiare in nome del rimosso della figura genitoriale maschile, a  tentare di risolvere il mistero e di ricomporre il  puzzle, come parallelamente aveva fatto e continuava a fare con il cinema attraverso l’autobiografia trasfigurata e poetica dell’alter ego di narrazione filmica Antoine Doinel.

Non tanto un romanzo, un poema o una canzone di Charles Trenet , quanto, in forma e sostanza più teutonica e granitica, un’indagine e un reportage intimista il Bilder vom Flo del tedesco Julian Vogel (menzione speciale nella categoria anteprime)  in cui è una famiglia, moglie e due figli maschi, a porsi delle domande e cercare delle risposte su un padre e un marito dopo la sua scomparsa:  una morte inaspettata e improvvisa che crea una connessione tra il passato di Flo, energico, istrionico, appassionato e socialmente impegnato- come giornalista, fotografo e dirigente di un importante associazione tedesca per la tutela dei minori –  e il suo presente ante e post mortem, offuscato dalla polemica sempre più aspra contro un giornale reo di aver scoperchiato una storia di abusi sessuali dentro la prestigiosa scuola progressista che lo stesso Flo aveva frequentato da adolescente.

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Vogel segue e sta particolarmente vicino a Max, suo migliore amico e figlio maggiore di Flo , e ne accoglie e descrive  la sottile linea del conflitto interiore, tra la volontà di chiarire il più possibile una verità controversa e l’immagine di padre premuroso, idealista e carismatico, rimanendo su un piano di concretezza e di realtà dei documenti che, come le foto o i video, ricostruiscono il profilo emotivo e psicologico di un uomo dalla giovinezza intrisa dello spirito utopistico e rivoluzionario dei ’60 e dei ’70, planato con consapevolezza e fiducia nel ruolo di padre, scaraventato suo malgrado, o forse no, dentro una polemica mass mediatica intorno alla quale la sua vita si ripiega; Un buco grigio che, nel procedere lento e implacabile della narrazione strutturata come indagine di memoria privata e pubblica, inghiotte completamente a un certo punto la possibilità, o meglio il rischio vista la lucidità analitica con cui l’autore ha filmato lo spinoso materiale, dell’elegia o del lirismo in memoriam.

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Bilder, immagini,campi di significato e sostanza più scivoloso e paludato dello stile lineare e cristallino di Vogel , che, in virtù e in opposizione a tale sguardo,  lascia che la figura di Flo si componga attraverso un’ elaborata architettura di segni  video e audio e di racconti dal vivo ( di parenti, amici, collaboratori)  davanti  ai quali noi spettatori  ci troviamo nella scomoda posizione di testimoni e non di voyeur, con sospensione di giudizio per ambiguità e un respingente sentimento di disagio per inquietudine.

Magari il Francois che amava le donne avrebbe trovato maggiore interesse nella maschera di ambito divismo  e orgogliosa stizza di Marianne, la nonna a cui il nipote , l’olandese Tom Fassaert, erge un decadente monumento di narcisismo, inganno e disillusione in A family affair, miglior film nella sezione Masterpierce.

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Il titolo parla di una questione di famiglia perché immergendosi dentro la vischiosità della storia della nonna, Fassaert cerca l’origine di un malessere e di una fragilità di cui sembra essere stata permeata, come una macchia d’olio, anche la generazione del  padre, evidentemente mai risolto con l’immagine di un femminile pericoloso e misterioso (la madre di Tom è la grande assente del fluviale racconto) e, in maniera amplificata e patologica, dello zio cresciuto e poi perso in un sentimento di  rifiuto, abbandono e solitudine, tanto da soffrire di una grave forma di disagio psichico.

La necessità di comprendere l’origine della fragilità e dell’irrisolutezza di questi figli maschi abbandonati a loro stessi è la spinta propulsiva che porta Faessart, prima attraverso la sguardo della sua mdp e poi facendosi includere, se stesso come personaggio, dentro la rappresentazione della storia della sua famiglia, ad andare a riscoprire e a filmare Marianne, una donna a cui risulta stonato e fuori senso assegnare gli appellativi di nonna e madre. E di lei, così attenta e consapevole della propria immagine di un glamour e un’eleganza perduta ma non rassegnata, fuggita dall’Olanda e dall’Europa abrutita  e in ricostruzione del post secondo conflitto mondiale,  per realizzare, nel Sudafrica bianco e colonizzato , il sogno da mannequin e da imprenditrice della moda, il tenace e paziente Tom, e noi con lui in un processo di empatia ed identificazione opposto al cronaca di Bilder vom Flo, scopriamo con gradualità e fatica una vibrazione di autenticità e di dolore sotto la patina di trucco ed istrionismo , nello specifico momento della confessione/confidenza sul passato misterioso: la fuga e l’abbandono dei figli in orfanotrofio, con l’evocazione di un’infanzia berlinese da ebrea sotto la dittatura nazista e un matrimonio senza amore e senza felicità. Un tentativo di essere assolta?  La storia famigliare ridotta a manipolazione di un immagine e  di un immaginario ? oppure l’assoluta e ferrea convinzione di poter salvare la propria identità solo nella sovrapposizione con il ruolo che si è creata per essere protagonista e autrice della propria vita?.

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Le  immagini di Fassaert, abbandonata l’aspirazione di trovare la Verità,  si prestano a questo gioco di finzioni e di doppi, e di volta in volta si fa diario, confessionale, psicodramma, melo’ (l’incontro tra Marianne e René , il figlio malato di mente)  commedia grottesca ( Marianne che non capisce perché non può avere una storia d’amore con il nipote ed è gelosa della sua compagna) e , ovviamente, cinema del reale, in cui la narrazione segue il processo di ciò che accade nel momento in cui sta succedendo, anche e soprattutto laddove la presenza del punto di vista situato è esplicitata  e coinvolta: Tom entra letteralmente in scena tirato dentro da Marianne che lo rimprovera di chiedere ai suoi soggetti di mostrarsi aperti e vulnerabili ma di non volersi  esporre in prima persona,  un’ottima chiave di lettura per tutto il cinema post moderno, documentario e non.

E quanto siano limitanti e castranti le categorie di documentario e finzione lo dicono due sequenze struggenti e delicate, pur sul confine dell’abuso e dell’invadenza, pericolo evitato dalla pietas dell’autore:

L’incipit con Marianne, ormai morente e incapace di muoversi e di parlare che, sorretta da Tom, ascolta da un telefono la voce del figlio che la chiama(Mamma, mamma, mamma…) aspettando una risposta che non può più esserci; e poi il momento in cui René, terminate tutte le parole, ci porta nella sua inconsolabile e internamente sanguinante ferita narcisistica dell’abbandono, cantando una vecchia canzone proveniente da un giradischi.

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A chiudere o ad aprire questo movimento circolare di perdita, ricerca e scoperta c’è un piccola e preziosa opera proveniente da una realtà, così vicina e così lontana da quella di Julian Vogel e Tom Fassaert, e molto assonante con il mondo della figura ispiratrice di questo articolo, Francois Truffaut, e in particolare di una sua sorella spirituale, l’Agnes Varda di Garage Demy: anche qui si esplora un tema personale e universale come il lutto di un genitore, ma l’esperienza straordinaria che propone Catarina Vasconcelos, dal Portogallo, con Metaphor or sadness inside out (premiato nella categoria Masterpiece jail, assegnato dalla giuria delle detenute della Casa Circondariale Perugia-Capanne) sta nel partire al contrario, dal tempo del dolore e della consapevolezza, per risalire al tempo della giovinezza e dell’innocenza  della madre che l’autrice e suo fratello,in narrazione alternata con un linguaggio lirico e introspettivo(e così reale)  vanno a ricercare nelle foto di famiglia, montate e filmate  usando la lente di ingrandimento espansa del sentimento e del ricordo, con un’espressione dichiaratamente compiaciuta e amorosa dell’estetica, del rendere  le immagini della memoria più belle del bello,  prima che il tempo della malattia capovolga di nuovo la prospettiva sulla quotidiana, comune bruttezza della morte.

Probabilmente la più fantasiosa, poetica e calda incursione che questo Festival ci ha donato sulla relazione indissolubile e indistricabile tra realtà, immaginazione e rappresentazione:  perché ciò che siamo è il risultato di quello che abbiamo vissuto e di quello che abbiamo sognato di essere.

 

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