di Fabrizio Croce/L’acronimo del Perugia Social Film Festival , PerSo,  annuncia ed evoca una suggestione di smarrimento e conseguente ricerca di sé che sembra presente anche sopra i volti e dentro gli sguardi degli uomini e delle donne- persone comuni e straordinarie, noi e l’altro che è come noi- nei promo che anticipano di volta in volta le proiezioni dei film, virati di colore diverso a seconda delle varie sezioni del festival.

E proprio una delle sezioni più innovative e concretamente propositive di questa manifestazione, Promo, cromaticamente segnata da un luminoso verde, propone una possibilità reale, con un premio in denaro, a  ogni giovane filmaker che ha intrapreso il proprio progetto cinematografico alla ricerca di un senso e di una direzione nella realtà che lo circonda e che si trova nella difficoltà di portarlo a termini per mancanza di fondi e risorse.

Questo festival perugino possiede infatti un’anima e un corpo non disgiunti tra di loro, in cui l’aspetto sociale che ha la sua solida radice nella Fondazione La città del sole, la Onlus che da anni si occupa dalla Salute mentale, e l’attenzione e la ricerca per un linguaggio cinematografico che, sotto l’egidia del presidente  Stefano Rulli e del direttore artistico Mario Balsamo, va ad indagare il sottile e sfuggente concetto di alterità( umana, urbanistica, culturale e persino temporale) si incontrano e creano una partecipazione anche nello spettatore, chiamato attivamente a dialogare e a confrontare opere e autori,  un presenza  nel qui e ora e al tempo stesso proiettata in un altrove , un costante on the road di distanze e avvicinamenti.

Chi sono, tra gli altri,  i personaggi e le storie dei Promo alla ricerca della loro realizzazione quanto meno da un punto di vista filmico? C’è Yiannakis, il maratoneta greco-cipriota di 65 anni che, attraverso la sua inesauribile passione per la corsa, ci racconta la situazione di Cipro,  rigidamente divisa in due zone ( greco-cipriota e turco-cipriota), quanto meno sconosciuta o rimossa  pur essendo l’isola inclusa nella Comunità europea che pure non riconosce l’esistenza della parte turca ; così 195 metres, il titolo annunciato dai tre autori Alessandro Di Cosmo, Marco Fortunati e Maria Tsaousi, sono la misura metafora  del raggiungimento di un obiettivo per il maratoneta e di un limite, un frattura, zona franca del checkpoint tra Nord e Sud, Cipro Turca e Cipro Greca;C’è Ibrahim, Shepherd of Jihadists( di Francesco Montagner) che in un’altra realtà dimenticata e rimossa come quella bosniaca dopo la guerra civile tra Serbi e Croati, si fa strumento per il reclutamento e la formazione di jihadisti, in un territorio dove il disagio sociale ed esistenziale trova  risposta e contenimento sempre maggiori nell’estremismo religioso mussulmano.

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Ci sono gli adulti ma soprattutto gli adolescenti e i bambini della comunità cinese di Prato( la più numerosa d’Europa, altra informazione rimossa o censurata…) alle prese con la definizione di un’ identità doppia, Chinese or italian di Teresa Paoli, che esattamente come i 195 metres tra la parte turca e quella greca di Cipro, non hanno possibilità d’incontro, contaminazione, dialogo, come la scuola  per cinesi, luogo di non integrazione dove si trasmette l’esclusività di un’identità culturale e sociale;Ci sono le storie di un parco, di un quartiere, di una città,  cerchi concentrici con cui Claudia Brignone, nel  dettaglio e nel particolare micro, cerca una direzione opposta e contraria di cura e bellezza all’immaginario torvo e sensazionalistico a cui ci ha abituati il linguaggio del reportage televisivo su Scampia, Napoli.

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C’ è Caterina che guarda Caterina( di Caterina Silva) in cui la stessa vecchiaia, solare e ironica, della nonna della regista è il luogo di esplorazione e di ricerca di una bellezza per contraddizione  e sottrazione;C’è infine la carrellata sulla mappa del corpo gravemente ustionato di Alexio (Second skin) che il regista Ignacio Acconcia sembra voler attraversare come il confine infertile di una terrà bruciata, nel tentativo di toccare la dimensione interiore, che si intuisce ricca di dignità e dolcezza,  sotto la superficie dell’immagine impatto da freak.

Work in progress accumunati tra di loro, e con gli altri titoli del programma, dalla volontà e dalla necessità di dare attraverso il linguaggio del cinema e della realtà, confini sempre più labili come i concetti di documentario e finzione,  una forma riconoscibile e dialettica a non luoghi popolati da personaggi autentici e vibranti, imbevuti di credenze, desideri, inganni e disillusioni, spesso con la virtuale ma ingombrante presenza dell’immaginario televisivo a punteggiare e scandire, a portare la Storia dentro le storie.

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Opere che vedremo e che abbiamo già visto passare sui nostri schermi, come il disturbante e doloroso Louisiana di Roberto Minervini, il cui sottotitolo, The other side, introduce subito il concetto di alterità, di una storia che è antitetica anche rispetto a quella di un’America superpotenza in decadimento, raccontandone non il tracollo in presa diretta, ma le ferite di individui già sopravvissuti  e indiscutibilmente persi dentro un degrado in cui l’emarginazione sociale è tradotta per sopravvivenza e spirito di contraddizione in società altra, con altre regole e altri valori; Una comunità di uomini e donne che vivono dentro roulotte o case fatiscenti, si drogano, spacciano, si prostituiscono …. eppure sono in grado di amarsi e di prendersi cura gli uni degli altri attraverso dettagli che vanno oltre la mera sopravvivenza( lo zio che regala una bambola su cui esercitare le proprie ambizioni da stilista alla nipote, nello stesso momento in cui gli esattori le hanno staccato la corrente elettrica), un misto di pathos e impietosa lucidità, squallore e purezza. Squarci di oscurità gradualmente sfumata in una luce opaca, grigia, spenta dove i corpi sgraziati e umanissimi di questi outsiders  si contorcono in spasmi di sofferenza e vitalità.

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Dalle paludi, i fiumi, le foreste e le favelas dell’American Deal obamiano  c’è un salto, letteralmente e simbolicamente, dentro gli spazi urbani anonimi e sconfinati della Georgia che appartiene agli skaters  sbandati e sbandanti di When the earth seems to be light(Quando la terra sembra leggera) di Salome Machaidz,Tamuna Karumidze e David Meskhi con un sguardo così appassionato, tenero e dinamico a seguire i falsi movimenti  e a raccogliere le frasi ora imbarazzanti e ritrose, ora pulsanti poesia di strada, di quegli adolescenti inediti, restituendo allo spettatore un’esperienza di sospensione e ondulazione che fa sentire più vicine esistenze precarie e altrimenti imperscrutabili.

Fratelli, epigoni e imitatori degli skaters filmati e amati da Gus Van Sant, in un rimpallo con l’America delle altre storie, in Paranoid Park.

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Geograficamente confinanti e ugualmente immersi dal punto di vista politico e sociale in una situazione contraddittoria, esplosiva e violenta, ma senza un tavola da skate a farli sfrecciare sulle brutture e le aberrazioni di una guerra fratricida, sono i ragazzi ukraini di cui Sveva Diamantakos  offre dei ritratti(Postcards from Ukraine) per raccontare il passaggio epocale dalla politica filorussa del presidente Janukovic a una nuova coscienza popolare, nazionalista e filo-occidentale, con la grande intrusione, in questo processo fragile e complesso, della propaganda televisiva antirussa, un’onda lunga che si estende come le bandiere nazionali gialle e blu a drappeggiare sopra gli edifici, che inasprisce, esaspera, arma la mano del conflitto tra conservatori  ed europeisti, rendendo, di fatto, alcune regioni del paese pericolose, instabili e incontrollabili zone di guerriglia. In questo documentario fiume, a tratti faticoso, le storie singole dei personaggi un po si perdono dentro la cornice visiva grandiosa dell’incipit e della conclusione, dalla prima manifestazione pacifista anti-russa con lanterne in piazza Maidan a Kiev fino al discorso trionfale e retorico, nella stessa piazza,  del nuovo presidente pro-UE Porosenko.

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Solo la retorica delle immagini e degli immaginari può ricostruire la frammentazione di non luoghi? Sembrerebbe di si, guardando sempre ad Est, alla Polonia di Superjednostka di Teresa Czepiec, sguardo analitico e geometrico  dentro l’alveare dei microappartamenti di un super condominio o macchina abitativa, come si legge più inquietantemente nelle note del film , alla periferia di Katowice: una testimonianza di come lo stile e lo sguardo di un cineasta offrono l’opportunità reale di guardare qualcosa, rivelandone la sostanza dietro l’apparenza, nella rappresentazione circolare delle azioni incorniciate dal cemento e dal grigio.

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Ma non c’è immaginario senza memoria e il cinema del reale  qui rappresentato dall’Italia sembra supportare e confermare questa tendenza estetica e narrativa, come nel sorprendente Io sono la vita di Giacomo Pecci e Stefano Teodori, il pedinamento, lento, minuzioso e preciso, di due anziane donne, appartenenti a quella società contadina che dal trapassato sta retrodatando  nell’età arcaica, sui luoghi della beatitudine di Padre Pio; Un rapporto con il Sacro fatto di voc-azione  e partecip-azione, come il tempo dedicato ai lavori della terra e della casa, un giorno dopo l’altro e un giorno uguale all’altro, tra la straordinarietà del rituale e l’ordinarietà del quotidiano ( sgozzare un pollo o il rito del forcone per scacciare il mal di schiena).

Un tempo fuori dal tempo che le inquadrature fanno proprio, ricostituendo la natura peculiarmente e tarkovskijanamente cinematografica delle immagini, scolpire il tempo.

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Tempo, immagine, memoria: un loop che trova la misura imperfetta  delle emozioni  nell’intimità e nell’intensità disarmante de La voce di mio fratello di Andrea Bersani, un padre e una madre che, assieme alle loro bambine, rivedono la vita del loro recente passato scorrere nei video di famiglia, e questo volta non si tratta solo di un rispecchiamento  o un viaggio empatico tra i ricordi: l’immagine stabilisce un contatto, diventa strumento di conoscenza della propria storia per le due figlie e di elaborazione del proprio vissuto per i genitori  nell’incontro nuovo con Riccardo, fratello e figlio scomparso troppo presto, con un’immagine finale che si staglia leggera e profonda: una figlia piccola che sta imparando ad andare in bicicletta e la voce off di una madre, che è stata a sua volta una figlia, a sintetizzare l’esperienza di quello che siamo stati, quello che siamo ora e quello che diventeremo.

Come il ciclo delle stagioni della natura,  il cinema del reale entra e si impadronisce de lo spazio e del tempo,li congiunge con la materialità e la fisicità e ne fa racconto, Storia dell’Umanità attraverso la storia degli uomini.

Prima che tutti quei momenti vadano perduti come lacrime nella pioggia …..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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