“Ritengo che analizzare le proprie ossessioni sia oltre che pretenzioso, anche pericoloso. E’ vero che spesso rifletto sull’acqua e mi affascina, ma preferisco non parlarne (..) Comunque non ho mai analizzato me stessa attraverso i miei film in modo così approfondito”, dice Susanne Bier alla conferenza stampa romana del suo ultimo film, girato negli studios e con produzione dell’american beauty Sam Mendes, “Noi due sconosciuti” (traduzione da urlo nella notte del più metaforicamente percorribile “Things We Lost in the Fire”). E le crediamo. La signora Bier, infatti, in ogni suo film dà ad intendere di esplorare chissà quali abissi, dolori e sentimenti molto profondi, disseminando a piene mani lutti, lacrime e malattie -tutti eventi al di fuori di noi e del nostro controllo, un modo difensivo se non ipocrita per allontanare la condivisione del dolore quotidiano dell’esistenza e la responsabilità di scelte difficili poichè prese liberamente- ma a ben guardare quello che fa è niente di più che la vecchia pratica del nascondere la polvere sotto il tappeto. La signora Bier seduce attraverso i riflessi che agita sapientemente sulla superficie liquida, rinunciando però ad andare sott’acqua, nell’inconscio, questo sì doloroso, in un tuffo che d’altra parte potrebbe svelare le cause di rapporti basati su bisogni e collisioni nevrotiche che sono il nutrimento tossico delle dipendenze patologiche (tanto più vincolanti quanto più vissute nell'”inconscietà”). La Bier sembra ossessionata dal triangolo sentimentale infelice e dalle separazioni (non a caso impossibili a meno che non ci pensi la morte a sgomberare il campo), ma volutamente rinuncia ad andare al fondo del problema preferendogli la riconciliazione (la famiglia in Non desiderare la donna d’altri, le disuguaglianze sociali nel capitalismo dal volto umano in Dopo il matrimonio) e la sostituzione fedele (il fratello in Non desiderare la donna d’altri e l’amico in Dopo il matrimonio). La dipendenza, uno dei temi centrali di questo film, rimane come un dato di fatto, al limite curabile con botte di terapia di pensiero positivo e con sacrificale senso del dovere. La separatezza, ovviamente, è sempre vissuta come un tradimento (tipico di una società con vocazione totalitaria alla famiglia).

Ai movimenti degli uomini, in giro per missioni umanitarie o alle prese con i propri eccessi, corrispondono i sacrifici delle donne, quasi sempre raffigurate in casa alle prese con i figli o dietro le conseguenze dei movimenti dei loro uomini, appunto. Ed è fastidioso, tutto ciò.

Il disagio non cessa, d’altra parte, nel seguire i molti movimenti di macchina e i bruschi silenzi, tipici del linguaggio cinematografico della regista danese. I primi piani sugli occhi rappresi dal pianto trattenuto da anni di controllo e quadrature, o quelli sulla bocca torturata dall’inadeguatezza e dal senso di colpa, sono talmente insistiti ed esagerati da sembrare di cera (Benicio Del Toro e Halle Berry, in questo senso, sono due bravi manichini). Molto rumore per nulla, verrebbe da sibilare. E le ossessioni rimangono.

La Paura mangia l’anima, diceva Fassbinder nel suo attraversare le dinamiche della dipendenza fino in fondo alla stretta, con feroce lucidità ma non dimenticando mai la tenerezza.

La signora Bier è anzitutto un bluff, perchè ha coscienza di quello che fa.

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