[**12] – In uno spazio rarefatto tendenzialmente monocromo e sulle calme note elettroniche soft di Diego Bliffeld, Jorge Ramirez fa l’artista burocrate, l’artista schivo, l’artista indottrinato, l’artista illetterato, l’artista demotivato, l’artista poco intenzionato, l’artista indolente, l’artista improvvisato e, sopratutto, l’artista per finta. Tant’è che,  infermiere in una clinica geriatrica, fa passare per suoi i disegni dell’anziano talentuoso a cui fa da badante. In breve tempo si mobilitano giornalisti, curatori, imprenditori, intellettuali, teorici, artisti passati e presenti, citazioni duchampiane, pubblico, gallerie d’arte, proposte, chiacchiere. Risucchiato – in maniera poco veritiera – dall’apparato parassitario, il non artista Ramirez mantiene l’iniziale approccio lassista e flemmatico, poco enfatico, mentre le chiacchiere continuano e continuano sul nulla. Perché  l’opera non c’è. O meglio, l’opera c’è ma non si vede. Da qui l’emergenza del primo dubbio: come mai ci sono dei tizi che parlano alla macchina da presa?

L’opera, che è la responsabile di tutto, ciò che rende possibile lo scambio d’autori, non si vede. Mai. L’opera viene dopo, viene prima, viene a lato, viene a latere, è fuori dall’inquadratura, è sotto, è di fronte (ma trasparente), è sopra. Si intuisce in absentia, per vicinanza, al massimo per breve tangenza, nelle inquadrature migliori per attraversamento. E’ attraversata da opinioni, definizioni, vuota perché riempita all’occasione da discorsi, da usi plurali, da scopi diversi. Incanalata in griglie e parole già precedenti, infine si risolve a venir meno. A svenire, a svanire.

Il secondo dubbio porta a riconsiderare l’identità del vero autore. In un primo momento Ramirez corrisponde perfettamente all’idea dell’artista disordinato (i quadri li accatasta in un armadio) e non regolamentato, tanto ignaro di dossier e curriculum quanto attento alla cosa che crea, umanamente poco coinvolto, distratto e assente. Inizialmente è l’ “idiota” corteggiato da una donna molto più bella e spigliata di lui e i suoi silenzi sono gravidi di saggezza. Tutto ciò sembra non essere programmato. Lui non fa finta di essere un artista ritroso e, parimenti, non fa finta di essere un artista branché, pare piuttosto che si comporti com’è. Lo sforzo è minimo, un po’ gli interessa e un po’ no. Ed effettivamente non è lui ad esser messo in gioco, potrebbe svoltare come non. La sua è piuttosto un’operazione “traduttiva”, di conduzione in un altrove, e quindi di riscrittura, è un’operazione di mediazione, mediatica. Una traduzione di un’opera altrui, del quale altrui sembra in fin dei conti essere l’agente. Ma il meccanismo s’inceppa e la persiana si rompe.

La veloce parabola fabulistica del suo successo si dipana attraverso inquadrature fisse, che tagliano, laterali, iperdettagliate, che strisciano ai margini, che sembrano puntate, indirizzate a caso su oggetti ripresi male. Male ma bene. Naso a metà, e un occhio solo. La ricerca sulla composizione dell’immagine (che, considerando lo stile del film, finisce per coincidere con lunghe sequenze) dà risultati poco scontati. La (classica) ripresa del bacio in macchina qui opta per una scelta poco comune di aria in testa. Molta aria in testa. Nella fissità dell’inquadratura il movimento è più di una volta introdotto grazie all’abbassarsi o allo spostarsi di qualcosa-qualcuno in primo piano che apre all’in secondo piano, al fondo, al dietro. Elementi tutti che lo autorizzerebbero ad essere meno esplicito di quanto appare.

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