MEMORIA di APICHATPONG WEERASETHAKUL

LLE PIEGHE DEL TEMPO

Memoria segna l’attesissimo ritorno di Apitchatpong Weerasethakul nel concorso ufficiale di Cannes; dopo aver vinto la Palma d’Oro nel 2010 con Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives, cinque anni dopo il suo film seguente, Cemetery of Splendour, era stato incluso in un Certain Regard. Memoria, un progetto di lunga durata che il regista aveva in mente già da vari anni, ha potuto finalmente farsi grazie alla complicità della sua protagonista Tilda Swinton, star internazionale, che ha attivamente contribuito anche come produttrice alla sua realizzazione. Memoria è l’ottavo lungometraggio del regista tailandese ma è il primo film che il maestro ha girato fuori dal suo paese ed è anche il primo film in cui compare un’attrice straniera del calibro di Tilda Swinton. Come lui stesso ha spiegato presentando il film, non avrebbe mai potuto proporre a Tilda Swinton di fare un film in Tailandia, ancora meno avrebbe potuto venirle incontro e girare in Scozia nel paese di lei, per dare vita a questo progetto comune era necessario trovare un comune denominatore, una specie di terra franca, dove entrambi sarebbero stati degli stranieri e avrebbero potuto lavorare a parità di condizioni. Abbandonando i paesaggi urbani e la giungla lussuriosa della Tailandia la scelta del regista si è portata su un paese dell’America latina. Il film è stato girato in Colombia con l’apporto di una serie di attori latinoamericani professionisti e non professionisti ai quali si è associata una seconda star internazionale, l’attrice francese Jeanne Balibar. Facendo astrazione dalla lingua parlata dalla popolazione locale, dallo spagnolo titubante di Tilda Swinton e dall’inglese utilizzato a più riprese, il resto della messa in scena ci rimanda direttamente all’universo visuale del maestro e all’atmosfera sospesa, spesso crepuscolare dei suoi film: alle scene notturne si alternano scene diurne con cieli nuvolosi o plumbei in cui il sole è sempre velato. Non c’è traccia in questo film di alcun folclore locale, la Colombia, così come viene rappresentata dal regista, somiglia stranamente alla ‘sua’ Tailandia. Ritroviamo qui una serie di luoghi ricorrenti nella sua iconografia che rinforzano questo gioco di specchi: la stanza d’ospedale, corridoi a perdita d’occhio, porticati, strade trafficate, un consultorio medico, selve e ruscelli, una natura verdeggiante e rigogliosa. Anche il tragitto compiuto dalla protagonista, come spesso accade nei film di Apitchapong Weerasethakul, parte da un universo urbano per svilupparsi, cammino facendo, in una vera e propria deriva che approda qualche parte lontano dalla città, in un luogo sperduto, isolato, al limite di grandi boschi dalla vegetazione lussureggiante che evocano il sostrato mitico e spirituale della nostra esistenza. L’elemento nuovo e sorprendente di Memoria è la presenza protagonistica del suono nel film. La colonna sonora è dominata dall’irruzione, a più riprese, di un suono ben specifico, una specie di botto repentino che diventa il fulcro intorno a cui si costruisce l’intera storia, il suo cuore pulsante ed ineffabile. In questo contesto il personaggio di Tilda Swinton funziona come un ricettacolo o, forse sarebbe meglio dire, come una cassa di risonanza che accoglie e vibra all’unisono con questo suono possente, improvviso e non ubicabile percepito solo da lei. La trama del film si snoda lungo il filo rosso di questo suono misterioso che la protagonista cerca dapprima di descrivere a chi le sta intorno, di localizzare e poi di seguire lungo una serie di epifanie improvvise che sono disseminate sul suo camino come quei pezzettini di pane che tracciano il cammino fiabesco di Hansel e Gretel. Se la prima reazione della donna è quella della ricerca di una spiegazione razionale, ben presto questo suono, che sfugge ad ogni categorizzazione precisa nonostante i suoi sforzi, rimanda la protagonista dal mondo esterno ad una dimensione ‘altra’ che è al contempo tanto personale ed intima quanto cosmica. Come spesso accade nei film di Apitchatpong Weerasethakul, anche in Memoria la trama che mostra dei segni di realismo all’inizio si sgretola pian piano aprendosi alla forza di un’evocazione poetica dell’immaginario. Tilda Swinton attraversa il film dal primo all’ultimo fotogramma con il suo corpo snello ed etereo, il suo volto sottilmente inespressivo in cui spicca uno sguardo curioso e la sua voce costantemente pacata, come uno spettro. Memoria inizia con una sequenza particolarmente sorprendente: nella semioscurità di un appartamento circondato da un giardino tropicale, illuminato sommariamente dalle prime luci dell’alba vediamo muoversi titubante la silhouette di una donna, quando un suono improvviso rimbomba con un effetto sorpresa che ci fa letteralmente sobbalzare. Da dove proviene? Cos’è? Un taglio netto ci porta nel grosso cortile di un immobile cittadino, filmato dall’alto verso il basso. Varie macchine sono parcheggiate intorno al suo perimetro: come per magia i fari di una prima macchina si accendono e il suo clacson inizia a suonare, nel giro di pochi secondi i clacson tutte le macchine, una ad una, si metteranno a suonare dando vita ad uno strano concerto. Apitchatpong Weerasethakul riesce subito a captare il nostro interesse, immergendoci in un mondo che è al contempo familiare e assolutamente straniante in cui il visibile si mischia con l’invisibile e la percezione della realtà con il mistero di epifanie singolari. L’ombra che si muoveva a tentoni nella prima sequenza è la protagonista del film, Jessica  -Tilda Swinton, un’inglese che vive a Medellin dove coltiva e commercializza orchidee. La donna è venuta a Bogotá per visitare in ospedale sua sorella Karen, colpita da una strana ed improvvisa malattia che sembra crearle dei vuoti di memoria. Nel corso di una conversazione con Juan, suo cognato, che la ospita nella casa di famiglia, Jessica si rende conto che il rumore che ha sentito non proviene da nessuna casa vicina né tantomeno da dei lavori in corso. Per aiutarla a comprendere meglio la natura di questo suono che tanto la perturba Juan le propone di lavorare con un ingegnere del suono, Hernan (Juan Pablo Urrego), un ex-studente di suo marito. In una lunga sequenza il regista ci permette di assistere ad un affascinante processo, fatto di molte spiegazioni da parte di Jessica e da altrettanti tentativi da parte di Hernan, per trovare e ricreare questo suono misterioso in uno studio di registrazione. Nel frattempo la donna continua le sue peregrinazioni a Bogotà. Strani eventi hanno luogo per le strade della città dove un uomo si mette improvvisamente a correre e poi cade per terra come colpito da un fulmine. Consultando una biblioteca di botanica per trovare delle informazioni sul fungo che ha colpito le sue orchidee Jessica s’imbatte in una paleontologa interpretata da Jeanne Balibar che studia lo scheletro di una ragazza vissuta sei mila anni fa scoperto per caso un cantiere stradale. Sempre più cosciente di essere l’unica a sentire questo rimbombo improvviso ed impellente che la sorprende nei momenti più inopinati come accade durante una cena con il cognato e la sorella che festeggia la sua guarigione, Jessica cela il suo malessere e fa finta di niente di fronte agli altri. Hernan, che per conto suo, ha continuato a lavorare alla costruzione di questo suono, presenta a Jessica i nuovi risultato della sua ricerca. Mentre l’accompagna da un grossista dove la donna cerca dei grossi frigoriferi per i suoi fiori, le propone perfino di finanziare il suo acquisto ma quando Jessica, qualche giorno dopo, lo cerca all’università scopre che nessuno ha mai sentito parlare di lui. Hernan esiste veramente? Forse è anche lui un miraggio, una proiezione o uno spirito? Non lo sapremo mai. Jessica si rimette in viaggio verso Medellin; questo viaggio inaugura la seconda parte della pellicola che la porterà ai limiti della foresta Amazzonica. Lungo il tragitto che sembra svolgersi di pari passo a quello delle ricerche dell’antropologa, Jessica consulta una dottoressa in un ospedale di provincia sperando di alleviare la sua insonnia ma la donna con gentile fermezza rifiuta di prescriverle dei sonniferi perché la renderebbero indifferente alla bellezza e alla meraviglia di questo mondo. Quando Jessica approda in un paesino di montagna s’imbatte vicino in un uomo che squama dei pesci vicini ad un ruscello. L’uomo si chiama Hernan, come l’ingegnere del suono di Bogotà.  Anche lui cela un segreto: si ricorda assolutamente di tutto. Dice di essere come un disco duro, attraverso il tatto può percepire anche quanto è successo in passato intorno a lui. La natura che ci circonda è gravida di tracce che si trasformano in ricordi le spiega; ogni pianta, ogni pietra custodisce la memoria delle gesta degli uomini. In quest’ultima parte della pellicola che dura quasi 45 minuti, l’azione si concentra sul dialogo fra Jessica e Hernan. Suoni, immagini e parole diventano pura poesia aprendo l’azione a tutti gli orizzonti del possibile. Gli strati del passato affiorano travolgendo  Jessica in una dimensione estatica, mistica e profondamente intima al contempo. La meditazione sul mistero della vita e sulla meraviglia del cosmo sprigiona una potenza evocatoria struggente e liberatoria. Solo un grande cineasta come Apitchatpong Weerasethakul sarebbe stato capace di tanto. L’arte è la memoria della trascendenza; questo film ne è una prova.

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