L’attribuzione del Pardo d’oro, massima ricompensa del festival di Locarno a She, a chinese di Xiaolu Guo, ha certamente sorpreso più di una persona. L’epopea di Li Mei, una ragazza impulsiva ed enigmatica che parte dal suo villaggio rurale in Cina per approdare sulle sponde del Tamigi, é costruita come un lungo elenco di situazioni scontate, di luoghi comuni. Durante la conferenza stampa conclusiva, l’annuncio del vincitore del Pardo d’oro è stato accolto da un silenzio generale. Un collega ha domandato a Jonatan Nossiter, presidente della giuria, se il film fosse stato designato all’unanimità; la sua risposta è stata tanto diplomatica quanto reticente.

Per quanto mi riguarda She, a chinese era uno fra i film in competizione che aspettavo di vedere con maggiore interesse e curiosità. Ma procediamo con ordine: Guo Xiaolu, regista cinese installata dal 2002 a Londra, ha alle sue spalle una lunga ed assai precoce carriera di scrittrice. Al cinema è arrivata attraverso il documentario. Il suo film d’esordio, The concrete revolution (2004), era una cronaca acuta e sensibile sulla ricostruzione forzata di Pechino e le sue conseguenze. Guo Xiaolu ha cominciato a farsi conoscere nel circuito dei festival con How is your fish today (2006), un film “rivelazione” a cavallo fra documentario e finzione, veramente originale e degno di nota per la complessità e l’intelligenza della sua scrittura, la finezza e l’incisività delle sue immagini. A questo lavoro si sono aggiunti negli anni seguenti Adresse Unknown (2007) una storia d’amore in voce off, singolare e toccante e We went to Wonderland (2008), un racconto intimo, graffiante e poetico del primo viaggio dei genitori di Guo in Europa, girato in bianco e nero.

In tutti questi film la regista ha fatto prova di grande talento associando un linguaggio sottile, non privo di ironia e audacia formale, ad una notevole capacità di introspezione psicologica. Comparato ai lavori precedenti della regista, She, a chinese si è rivelato, purtroppo, molto inferiore  alle aspettative. Il film  è suddiviso in una serie di episodi che, come i capitoli di una novella, sono introdotti da un titolo. Guo Xiaolu abbozza un quadro generale senza entrare nei dettagli del carattere dei vari personaggi, delle loro motivazioni, dei loro sentimenti: ogni episodio è dipinto a grandi pennellate. La lunga storia di Li Mei si sgrana così davanti ai nostri occhi in uno stile stringato, coinciso e sbrigativo. Il riassunto della vicenda, un carosello tanto vorticoso quanto prevedibile di incontri amorosi, rende bene l’idea del film.

She a chinese

Mei Li, una ragazza di una ventina d’anni, vive in uno sperduto villaggio della Cina rurale e lavora con la madre in un’osteria a cielo aperto. Il primo uomo della storia è  il tipico buon partito, un funzionario statale, con uno stipendio fisso. Mei cede all’insistenza della madre ed accetta di incontrarlo. L’appuntamento è ovviamente un disastro. A Mei piace un ragazzo della sua età con cui va in giro in moto, un tipo spigliato che cerca ben presto di portarsela a letto. Mei, ancora pudica ed inesperta, lo respinge ed il ragazzo la pianta subito in asso. Il terzo uomo della vicenda è un camionista che ha promesso a Mei di invitarla al cinema, arrivato però in aperta campagna l’uomo la violenta e l’abbandona in mezzo ai campi. Mei decide di partire per tentare la sua sorte in città. A Chongqing viene assunta in una manifattura di camicie, ma pochi giorni dopo perde il suo posto. Si ritrova per strada ed inizia a lavorare per un losco parrucchiere da uomo che é in realtà una casa di tolleranza. Mei si innamora di Spikey, un sicario che abita nel quartiere, ma di lì a poco l’uomo viene ferito mortalmente. La ragazza fugge in Europa con i soldi che trova nascosti sotto il materasso del suo amante ucciso.

Arrivata a Londra cerca di adattarsi come può: distribuisce dei volantini pubblicitariper un ristorante cinese, posa nuda per una lezione di anatomia, lavora come massaggiatrice per un medico cinese. Mister Hunt, un paziente inglese settantenne, si innamora di lei e la sposa. Mei si trova finalmente a vivere in una bella casa, suo marito è premuroso ed affettuoso ma, man mano che il tempo passa, si annoia sempre di più. Decide di abbandonare l’uomo e cerca rifugio presso Rachid, un giovane immigrato indiano che gestisce un  take away. Mei inizia a vivere con lui in una piccola stanza nel retrobottega e sembra finalmente felice. Purtroppo anche questa relazione pian piano si deteriora. Rachid che è musulmano cede alla pressione dei suoi compatrioti ed incomincia ad allontanarsi da Mei; quando la ragazza gli annuncia di essere incinta, la mette alla porta.

Guo Xiaolu ci racconta questa storia mantenendo dall’inizio fino alla fine un buon ritmo narrativo, l’irrequietezza e la mobilità dell’eroina è assecondata da un uso molto agile e flessuoso della macchina da presa che si muove intorno ai personaggi creando una suggestiva coreografia di punti di vista. La fotografia riesce a captare felicemente luci ed atmosfere specialmente nella parte girata in Cina dove il contrasto fra la provincia e la città ci è trasmesso attraverso alcune inquadrature molto riuscite. Il ritmo del film è sostenuto efficacemente dalla colonna sonora punk-rock; realizzata da John Parish in collaborazione con Pj Harvey e gli Eels la musica conferisce a She, a chinese un’innegabile energia. Purtroppo queste qualità non riescono a colmare le carenze del film.

In She, a chinese, non c’è, né vuole esserci, nessun tipo di studio o di introspezione psicologica; Guo Xiaolu ci offre un campionario di caratteri sommariamente abbozzati. I personaggi maschili riflettono tutta una tipologia di stereotipi etici ed etnici: il gangster cinese, l’intellettuale inglese vecchio e ricco, il violentatore, il ragazzo scapestrato, il musulmano fanatico e via di seguito. Neanche Li Mei, la protagonista, sembra essere un personaggio in carne ed ossa. Figura enigmatica ed impenetrabile, guidata da una volontà fredda e da un totale distacco affettivo, nulla sembra commuoverla, nulla sembra frenarla; né la morte tragica del suo amante, né il suo stupro. Con determinazione ed indifferenza volta semplicemente la pagina e avanza.

Ogni volta che affronta una nuova esperienza, cambia completamente anche il suo look, come se fosse un semplice manichino che indossa ogni volta, con una certa noncuranza, un nuovo carattere. Sul volto molto bello, ma raramente espressivo di Huang Lu, l’attrice che impersona Li Mei, non si sente passare l’emozione; più che altro è la fisicità dei movimenti, l’incessante procedere dell’eroina a trasmetterci la sua forza di volontà, la sua ambizione e la sua ostinazione. Li Mei si fa strada a colpi di clichè attraverso un universo maschilista di cui è di volta in volta vittima-oggetto e sfruttatrice. Lungi dal provare simpatia per questo personaggio, alquanto criptico, lo osserviamo piuttosto con distacco nella sua inarrestabile, grottesca e drammatica fuga in avanti.

She, a chinese
più che una storia di emigrazione, è la storia di un destino di donna, certo poco realistico e difficilmente credibile, ma forse, nelle intenzioni della regista, paradigmatico. Nella determinazione della protagonista ad andare avanti a tutti i c
osti, ad abbattere tutte le barriere, ad essere accettata per quello che è senza mai volersi veramente integrare o adattare agli altri ed alle condizioni di vita che le impongono, possiamo leggere in controluce un racconto vagamente autobiografico.

Su uno sfondo di parodia She, a chinese lascia trasparire una visione cinica e disincantata del mondo odierno dove stili di vita, culture, oggetti ed esseri umani sono intercambiabili ad libidum e dove il singolo può sopravvivere solo a patto di essere più ambizioso ed egoista degli altri. Questa è in fin dei conti la lezione, amara, del film.

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