Cavalho Dinheiro, ultima opera di Pedro Costa, è un distillato delle opere precedenti del maestro portoghese; passo ulteriore, di una portata incommensurabile il film segna il  passaggio da una fenomenologia ancora legata ad una presa documentaria e documentante sul reale verso il rigore ultimo di una purezza formale assoluta.

Tracciata su un canovaccio ellittico e sfuggente la trama non segue una logica narrativa convenzionale ma si allinea sul filo di una fantasmagoria sontuosamente criptica, punteggiata d’immagini e di suoni, canzoni e conversazioni, oggetti e voci.

La frammentazione delle categorie di spazio e tempo si apre in Cavalho Dinheiro su una composizione che associa alla cartografia di una storia intima- i ricordi ed il vissuto del personaggio chiave di Ventura- le tracce dolorose del passato-presente di una memoria collettiva.

Con Ventura, protagonista del film, attraversiamo i sedimenti di tutti i cataclismi che hanno colpito il Portogallo in questi ultimi decenni: la guerra coloniale, la rivoluzione, la decolonizzazione per arrivare ad un oggi ancora più opaco ed incerto del passato che lo precede.

Cavalho Dineiro è un lungo viaggio nella notte dei ricordi, sul filo di vive vissute, combattute, sofferte, è uno sguardo a ritroso, un fare i conti con se stessi e con la propria esistenza: è, in ultima istanza, un apologia.

Proprio in una della prime sequenze un personaggio ingiunge a Ventura: “Confessa!”

Ventura, il doppio, l’alter ego dolente del regista, ripercorrerà il cammino della sua vita a ritroso in una ricostruzione frammentaria, discontinua, fatta di associazioni, a prima vista erratiche ma essenziali se viste nel loro insieme.

A tentoni, nell’oscurità di luoghi sotterranei, di corridoi a perdita d’occhio, di stanze d’ospedale, di colline boscose alla periferia di Lisbona, di crocevia insicuri e di capannoni in disuso, seguendo un fragile filo d’Arianna, Pedro Costa ci trascina sulle orme di Ventura, in un percorso labirintico fatto di salite e discese continue, dove le inquadrature espressionistiche sembrano accrescere una visione verticale del mondo, ordinata secondo i canoni dell’alto e del basso, della superficie e del sottosuolo; il suo ed il nostro viaggio diventa una discesa agli inferi.

Lo spazio è trattato in modo essenzialmente pittorico; sul valore e la valenza delle zone di luce ed ombra si potrebbe disquisire a lungo -ogni inquadratura meriterebbe di venire studiata con cura- per il momento ci limiteremo ad osservare come il gioco marcato del chiaro-scuro illuminando tratti di volti, squarci di corpi e segmenti privilegiati  di un luogo trasformi ogni singola immagine in una vera e propria epifania.

Pennellate di luce caravaggesca che infiammano con un bagliore metallico squarci di volti nell’oscurità si alternano a composizioni rigorosamente geometriche dove accordi di   schermi opachi creano, in controluce, l’effetto di un teatro d’ombre. E anche il giorno non è mai completamente tale: i raggi del sole filtrano nell’interno dello spazio da aperture circoscritte, fendendolo e spezzandone l’unità e l’uniformità.

Il culmine di questo tragitto, il centro del labirinto verrà varcato da Ventura verso la fine della pellicola in una lunghissima e memorabile sequenza filmata all’interno di un ascensore metallico ultramoderno in cui l’uomo incontrerà ‘la bestia’ : un soldato, forse un compagno, avviando con lui un dialogo de profundis.

Nello spazio minerale dell’ascensore il soldato é quasi un fossile, una statua annerita dal tempo, un uomo di carbone e d’acciaio con gli occhi perennemente chiusi; Ventura, senza corazza e senza vestiti, lo affronta fragile ed inerme nel suo pigiama rigato da ospedale:“Verrà un giorno in cui saremo capaci di accettare la nostra sofferenza”, convengono i due alla fine.

Ferite dei corpi, ferite dell’anima: la malattia di Ventura è quella di un vecchiaia prematura dovuta al duro lavoro e all’indigenza ma è anche quella di un male epocale e sociale, il male di una collettività intera – quella capoverdiana –  in un paese che non ha mai saputo-voluto accoglierla ed integrarla.

Ventura trema, è disorientato, perduto, viene ammesso in un fantomatico ospedale; man mano che si riprende, la trama della sua memoria si riconnette ed iniziano ad emergere volti, personaggi, sentimenti, ricordi.

Tutti i personaggi del film sono degli spettri, fantasmi reali di un percorso memoriale.

La dialettica fra anamnesi ed oblio si trasforma in Cavalo Dinheiro in un movimento liberatorio: ricordare per potere dimenticare…

E poi nel film ci sono le canzoni e c’é la fierezza di Ventura per il suo lavoro, per quanto ha offerto alla società attraverso gli edifici che ha costruito, insieme ad altri, nel corso della sua vita.

Ma chi sono o erano questi altri? Nel film emergono a più riprese tutti insieme o uno ad uno, spettri viventi per raccontare la loro triste storia : come hanno perduto il lavoro perché colpiti da epilessia, come per disperazione si sono messi a vendere droga, come in un raptus hanno dato fuoco alla loro casa, bruciando moglie e figli.

E poi c’è una storia d’amore struggente e meravigliosamente incomprensibile fra Vitalina, splendida e intrepida sacerdotessa della notte -un nuovo, potente, enigmatico personaggio entrato a far parte dell’universo di Pedro Costa – e Ventura.

Un triangolo amoroso, incerto, oscuro, passionale e violento sembra prendere forma, per poi dissolversi in modo altrettanto struggente e misterioso.

Ermetico nel suo dolente splendore ma non per questo meno possente e viscerale Cavalo Dinheiro è un film poetico, un film politico, un film necessario che conferma il suo autore come uno dei creatori di immagini e di significato più importanti del cinema dei nostri giorni.

Per Cavalo Dinheiro Pedro Costa è stato ricompensato al Festival di Locarno con il Pardo per la migliore regia.

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