Con Akadimia Platonos, una commedia fresca, dai toni satirici, melanconici e un po’ amari Filippos Tsitos ci offre un ritratto assai critico della Grecia di oggi non privo però di un briciolo di speranza. Il film, illuminato dalla straordinaria interpretazione di Antonis Kafetzopoulos (Pardo per il migliore attore), è da annoverarsi fra le belle sorprese del 62esimo Festival di Locarno.

Akadimia Platonos, l’Accademia di Platone, è oggi un quartiere popolare del centro di Atene. Filippos Tsitos sceglie questo luogo dal nome evocatore per mettere in scena quattro personaggi, Stavros e i suoi tre amici, che passano il loro tempo seduti a far niente, lamentandosi e compiacendosi in un patriottismo ingenuo ed ottuso. Sono loro i lontani discendenti di quegli ateniesi, filosofi avvertiti, che si radunavano nell’Accademia di Platone per dedicarsi all’esercizio della dialettica?

Stavros, ormai cinquantenne, non sembra ancora avere pienamente accettato il suo ruolo di adulto. Totalmente indolente, si trascina dietro una serie di problemi senza avere la forza di risolverli e soffre d’insonnia. Nella sua piccola merceria non entra praticamente nessuno, vorrebbe inoltre convincere la sua ex-moglie a tornare da lui, ma non trova il coraggio di dirglielo. Trascorre le sue giornate prendendosi cura della madre, una donna anziana che, dopo un incidente cerebrale, vive nel suo mondo, il resto del tempo lo passa seduto davanti al suo negozio in compagnia di tre amici altrettanto pigri e sfaccendati. Quando non giocano a pallone, i quattro si dilettano ad osservare un cane che abbaia tutte le volte che passa uno straniero e a spolverare i ricordi del loro “glorioso” passato di rockettari.

Mentre i nostri eroi stanno seduti tutto il giorno e si divertono facendo delle battute razziste intorno a loro c’è chi si dà da fare: un gruppo di cinesi lavora accanitamente per preparare l’apertura di un negozio, più in là dei lavoratori albanesi scavano per installare un monumento. Un giorno l’esistenza monotona di Stavros viene sconvolta da un evento inatteso: sua madre sembra  riconoscere nei tratti di un albanese che lavora nel quartiere il volto di un secondo figlio abbandonato quarant’anni prima in Albania. Questa scoperta scatena una serie di situazioni assurde ed esilaranti. La madre, di colpo, si mette a parlare in albanese e Stavros si trova da un momento all’altro a dovere affrontare un dilemma cruciale: è Greco, come ha sempre creduto, o è Albanese, come tutti coloro cha ha sempre disprezzato? Dopo averne passato di tutti i colori Stavros uscirà da questa avventura più maturo, più consapevole, riconciliato con se stesso, con la sua identità nazionale e con la realtà che lo circonda.

Filippos Tsitos ci racconta questa storia con molto brio e sensibilità optando per uno stile scarno e leggermente paradossale. Senza sovraccaricare i suoi personaggi ottiene dei ritratti credibili ed autentici attraverso i particolari molto curati dei costumi e della scenografia. Il regista sa inoltre alternare sapientemente delle scene sovrappopolate, dominate  dagli scambi verbali con delle spiagge di solitudine. Questi silenzi sono affidati alla presenza di Antonis Kafetzopolos: sul suo volto filmato da vicino passano in pochi istanti dubbi, dolore, impotenza, rabbia e amore con un’intensità  pari ad un’esplosione invisibile temperata solo da un velo di tristezza e di poesia che gli attraversa lo sguardo. Sono questi a mio avviso i momenti più belli del film.

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