Frontier Blues, film selezionato in competizione internazionale, ci narra una storia  nutrita dal vissuto e dai ricordi del giovane regista, Babak Jalali, partito all’età di otto anni dall’Iran per vivere  in l’Inghilterra.

Opera melanconica e divertente, affettuosa e nostalgica, Frontier Blues si svolge a Goran, luogo di nascita del regista, una piccola città di provincia situata in una landa sperduta al confine con il Turkmenistan e ci descrive la vita di alcuni dei suoi abitanti.

Quattro uomini, presi in una quotidianità monotona e solitaria, sognano ed aspettano invano l’amore consolati dal suono di un blues che qui non è altro che una vecchia canzone francese di Fraçoise Hardy dal titolo pieno di promesse: Tout les garçons et les filles.

Lungi dal trattare questo soggetto con uno sguardo di tipo etnografico, seguendo la tradizione del filone documentaristico-realista caro al cinema d’autore iraniano, Jalali opta in questo suo primo lungometraggio per uno stile anti-naturalistico, una stilizzazione dei personaggi ed una messa in scena di tipo teatrale.

Il tono del film si annuncia chiaramente fin dalla prima inquadratura: camera fissa, piano medio, prospettiva centrale. Un ragazzo leggermente handicappato è seduto davanti ad un tavolo da cucina, inforca degli spessi occhiali da miope e guarda direttamente nella cinepresa. Sul muro di fondo, proprio sopra la sua testa, pende la fotografia incorniciata di una donna. “Questa è mia madre” ci racconta il ragazzo, “abita a Parigi,  se n’è andata poco dopo mio padre. Mio padre è fuggito quando sono nato io. Mia madre mi ha lasciato da suo fratello, mio zio, che da allora ce l’ha con me!” Questa è la presentazione del primo personaggio: Hassan.

Hassan passa il suo tempo a rubare delle targhe automobilistiche, va sempre in giro con un vecchio registratore  ed un asino al quale dà da mangiare dei giornali.

Il secondo personaggio è lo zio di Hassan: un uomo taciturno sulla cinquantina, capelli lunghi, tinti, sguardo malinconico. Ha un negozio di abbigliamento con poca mercanzia, tutta della stessa taglia, gli fa compagnia il busto femminile di un manichino.

Il terzo personaggio è Alam, un ragazzo turco sulla trentina. Vive solo con il padre, lavora in un allevamento industriale di galline, alzando i sacchi di concime si strappa sempre la divisa e deve ricucirsela ogni volta, va a pescare con suo padre e cerca di imparare l’inglese ripetendo le frasi che ascolta su una cassetta.

Il quarto personaggio è un uomo sulla sessantina alto e magro, un turkmeno suonatore di  musica tradizionale. Sua moglie lo ha lasciato una trentina di anni fa fuggendo con un pastore su una Mercedes verde. L’uomo posa, di giorno in giorno, con quattro ragazzini che lo seguono dappertutto per un fotografo venuto da Teheran alla ricerca abitanti autoctoni.

La vita a Goran segue il suo corso quotidiano fatto di  tante piccole abitudini, di tedio e di un anelito tanto forte quanto inconfessato ad incontrare una donna ma i protagonisti del film si scontrano con i limiti della loro esistenza a cui non riescono a dare una svolta. Prigionieri della loro sorte come delle inquadrature fisse – una scelta stilistica che accompagna, salvo rare eccezioni, l’insieme dalla pellicola- i nostri quattro anti-eroi cercano, attraverso dei tentativi goffi e patetici, di colmare la loro solitudine.

Hassan compone dei numeri di telefono a caso e cerca di intavolare delle conversazioni con delle ragazze sconosciute, lo zio prende cura con affetto, come se si trattasse di un essere in carne ed ossa, del manichino femminile che ha in negozio, il musicista turkmeno si consuma nel ricordo della moglie e spera di vedere affiorare un giorno la mercedes verde, Alam decide di domandare in matrimonio Ana, una ragazza che abita nei dintorni.

Ana sarà l’unica figura femminile a comparire nel film. Assenti nelle immagini della pellicola le donne sono il vero fulcro della vicenda: sognate, desiderate, cercate, attese invano.

Alla fine tutto precipita ed i nostri eroi si ritrovano ancora più soli e delusi di prima: Hassan perde il suo amato asino, il musicista vede  finalmente passare una mercedes verde uguale a quella su cui era fuggita sua moglie ma non riesce a fermarla, Alam viene respinto da Ana.

Babak Jalali ha saputo dare a Frontier Blues un impronta estetica molto personale.

Quasi tutto il film, salvo poche eccezioni, è girato con delle inquadrature fisse, dei piani larghi ed una prospettiva centrale.

Un gusto spiccato per la simmetria caratterizza la composizione delle scene: i personaggi guardano direttamente nell’obiettivo restando immobili per alcuni secondi prima di iniziare a parlare o a muoversi.

Ogni scena è orchestrata come quelle fotografie dei vecchi tempi in cui tutti posavano col vestito da festa, seri e composti davanti all’obiettivo.

La monotonia della vita a Goran si riflette in queste pause, nel ritmo misurato del montaggio, nell’economia dei dialoghi; ne risulta un atmosfera melanconica ma attraversata, dalla prima all’ultima inquadratura, da un humor sottile lievemente amaro  pieno di affetto e di autentica simpatia per la sorte dei protagonisti:

Frontier Blues ha la bellezza di un vecchio album di famiglia; ci commuove, ci fa spesso sorridere, ci trasporta nell’immensità luminosa della steppa, rivelandoci un giovane regista di cui sentiremo, senza dubbio, parlare ancora.

 

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