Nessuno in piazza Grande, nessuno nel concorso ufficiale. Che ad un primo sguardo, veloce sul festival, viene da pensare che di italiano, quest’anno, manco a parlarne, crisi nera. E invece non è così, perché di cinema italiano, nel paesotto svizzero sul lago Maggiore, ce n’è, ed anche di interessante. Soprattutto nella sezione chiamata Ici et Ailleurs, in omaggio a un vecchio film di Jean Luc Godard. E partiamo da qui, andando in ordine cronologico, di pettorale, di discesa in proiezione. Il primo lavoro, documentario come quasi tutti i prodotti di questa sezione, è Il figlio di Amleto, un’opera intensa e accompagnata da una non vuota originalità espressiva. L’ha diretta il trentaduenne Francesco Gatti, purtroppo da poco scomparso, addirittura prima che il film fosse finito e la fase finale della sua realizzazione fosse seguita, per forza di cose, da altri suoi abituali collaboratori, tra cui Giovanni Maderna (anche produttore del film).

Il film è una specie di artistico semi ritratto del pittore Sergio Battarola, che è il protagonista del film, il soggetto più filmato dell’opera, il più osservato e interrogato dal regista. O forse é solo uno dei tre protagonisti di un progetto che supera di slancio lo steccato del biopic e cavalca forme e contenuti di più largo ed alto interesse, carico di più intime motivazioni autoriali. Sergio Battarola era un pittore della bassa padana, un artista non famoso, tutt’altro che ricco. Almeno fino al 1989, anno in cui il noto scrittore e critico d’arte Giovanni Testori, in un certo senso secondo protagonista del film, inizia a interessarsi di questo allora giovane artista. Scrive bene di lui e ne promuove l’importanza. Compra i suoi lavori e sembra aprire il mondo a questo pittore squattrinato che si trova in breve tempo ad essere sostenuto con fermezza dalla firma più autorevole del momento.Battarola sviluppa con Testori un rapporto intenso che è la chiave di un film fatto di 75 minuti di valida narrazione.

Franscesco Gatti si é posto in questa relazione, profondamente ed istintivamente, sino a divenire il terzo discretissimo e attivissimo protagonista del film. La sua telecamera osserva il Battarola e lega le sue considerazioni sulla vita ad altre del Testori, recuperate negli archivi delle teche Rai. Il film colpisce, incurioscisce, rimanda ad altre riflessioni e alla voglia di altre domande. Perché veicola una energia ed uno spirito di fondo che vanno oltre la scoperta di un artista sconosciuto ed oltre la memoria di un importante intellettuale italiano del secolo scorso. E’ assolutamente un caso che Testori c’entri anche con il secondo lavoro italiano proposto dalla sezione Ici et Ailleurs, e cioè L’ultima salita – La via crucis di Beniamino Simoni, l’ennesimo esperimento espressivo di Elisabetta Sgarbi. Una regista cinematografica? Una storica dell’arte con un metodo innovativo di indagine? Una videoartista? Una che filma opere d’arte? La risposta non è semplice, perchè non è solo scultura filmata questo terzo capitolo di una trilogia cinematografica sulla scultura sacra realizzato dall’artista, chiamiamola così, ferrarese. Dopo Il Pianto della Statua, 2007, e dopo Non chiederci la parola, 2008, ecco adesso, qui a Locarno 62, L’ultima salita – la Via Crucis di Beniamino Simoni.

Un approfondimento sull’opera d’arte scultorea e pittorica di Beniamino Simoni. Voliamo nella Val Camonica del ’700, dove il Parroco Gualeni commissionò all’artista 14 cappelle di statue lignee e di stucco sul Calvario di Cristo. Ne venne fuori una preziosa catena di scene sacre, fatte però di umane espressioni e movimenti. Un gioiello artistico che oggi la Sgarbi interpella ponendosi per l’ennesima volta sul confine tra l’omaggio, l’operazione di approfondimento critico e la trasformazione dell’oggetto artistico in qualcosa che non è esattamente cinema, e non è più solo omaggio alla creazione dell’artista. Un esercizio se vogliamo raffinato che è sempre sospettabile di volersi trasformare in opera d’arte autonoma.

Elisabetta Sgarbi procede avvicinandosi con sinuosa delicatezza alle linee delle sculture o delle pitture, e dissolvendo in nero ogni volta che sente compiuta la sua missione di ultra documentazione. In L’ultima salita, la telecamerina digitale osserva i contorni delle sculture, sacra stazione dopo sacra stazione. Le avvicina e lascia che il breve buio accompagni le sensazioni dello spettatore. La Sgarbi inserisce in questa esageratamente lunga sequenza di visioni e dissolvenze, brani scritti da Da Erri De Luca, Vittorio Sgarbi, Giovanni Testori, Remo Bodei, Emanuele Severino e Tahar ben Jelloun. Toni Servillo ci mette la voce, come fece cinque anni fa con l’esordio della Sgarbi nel lungometraggio, Notte senza fine, 2004. Franco Battiato presta le sue musiche a questo terzo capitolo critico/artisitico e contribuisce con le sue note scritte appositamente per L’ulitma salita, a questa nuova commistione di linguaggi artistici poggiati su una già grande prova d’autore. Il problema principale è la lunghezza eccessiva di un esercizio che si può odiare o accettare. E che sconsigliamo vivamente a chi si annoia al cinema con le cose poco movimentate.

Passiamo al terzo film della sezione, Housing, di Federica di Giacomo, una delle cose migliori viste qui, un documentario sul problema abitativo girato nel capoluogo pugliese.  La regista racconta con amara ironia storie di disagio che formano una guerra tra poveri, in un documentario di 90 minuti che si segue con emozione ed interesse. Ci sono persone che aspettano anni per avere una casa popolare e che, quando l’hanno avuta, ne diventano prigionieri per paura di perderla. A Bari, da oltre vent’anni, non si assegnano case popolari e sono più di tremila le famiglie che ancora aspettano in graduatoria. La storia raccontata da Federica Di Giacomo mostra la vita di quattro personaggi regolata in ogni gesto, movimento o iniziativa dal timore di perdere la casa, alla ricerca di strategie di sopravvivenza. Legittimi possessori di alloggi popolari alla fine, ne sono ogni giorno posseduti. Vivere per la casa e non vivere nella casa. I personaggi ruotano intorno a questo mantra dolente e paradossale. Il film è da vedere come quasi tutte le cose della sezione, del resto, come ovviamente, il ritratto che Costanza Quatriglio fa della cantante Nada.  Il mio cuore umano, titolo del film è un racconto intimo e delicato della cantante livornese nata in provincia di Livorno, ormai qualche anno fa. Costanza Quatriglio organizza con un amore lungo 53 minuti, una Nada donna ed artista che ha fatto la storia della musica leggera italiana, che compare sulla scena introdotta con eleganza da Sandro Ciotti e da un giovanissimo Claudio Lippi. Una Nada bella, che sa muoversi con energia, onorare la sua voce e la sua anima ogni giorno. Ma ce ne è anche un’altra, molto più fragile, nascosta, umana al massimo e pericolosa da esporre in un documentario, seppure gestito e fortemente voluto da una persona seria, che solo a vederla trasmette fiducia.

Costanza
Quatriglio si avvicina molto all’intimità della cantante, rischiando anche, ma il documentario ne esce salvo e tutt’altro che freddo. E’ anzi, partecipato ed affettuoso, molto attento anche a tenere alta la bandiera delle donne, come già da un po’ di tempo certo documentario italiano fa, pensiamo soprattutto al lavoro portato avanti da Alina Marrazzi.

L’autrice parte da un romanzo autobiografico che Nada stessa aveva scritto, e che ha lo stesso titolo del documentario presentato a Locarno 62, come evento speciale all’interno della sezione Ici & Ailluers. Il mio cuore umano, appunto, quello in cui la cantante racconta tanto di sé. C’è Nada privata che si fa protagonista inaspettata di se stessa, assumendosi dei rischi che evita con la sua densità umana, sorretta e aiutata da una regista sensibile e misurata. Andiamo avanti, arriviamo ad un documentario molto particolare, che racconta la storia di un Guardia parco all’interno del parco nazionale del Gran Paradiso.

Il regista si chiama Joseph Peaquin e non è nato in Italia. Vi si è trasferito anni dopo, precisamente in Val D’aosta, dove gli è stato facile immaginare un documentario come quello che ha appena realizzato: In un altro mondo, appunto, bello come quello incontaminato e puro in cui vive il protagonista. Il documentario segue per un lungo periodo la guardia che controlla i camosci, ma è disinteressato a mantenere una struttura e una coerenza cronologica dei fatti trattati. Passano le stagioni, ma sempre identici sono i ritmi, le azioni e le tensioni del protagonista. Il lavoro è molto interessante, il regista osserva e pedina con grande pudore, ma c’è la sensazione forte che la vicenda umana e professionale del protagonista sia uno strumento per raccontare altro, una condizione esistenziale da contrapporre a quella dominante nella cultura occidentale.

La scenografia del film è fantastica, la fotografia degna di tanta bellezza naturale. Molti frammenti del film creano una tensione emotiva che ci piace anche se nel complesso si ha la sensazione che qualcosa del suggestivo discorso fatto dall’autore, ci sia sfuggito. Sempre di montagna, andando avanti con questa veloce rassegna di titoli italiani, parla il documentario Lo specchio, prodotto dalla Vivo film di Gregorio Paonesa e Marta Donzelli. Siamo a Viganella, piccolo paese del Piemonte in cui una volta, poco tempo fa, per mesi e mesi, dall11 novembre al 2 febbraio, non arrivava mai il sole. Adesso, uno specchio, voluto fortemente dal sindaco del paese, ha fatto comparire la luce in questo piccolo borgo tra i monti. Il doc. segue le fasi dell’installazione della struttura e si porta dietro la nostra attenzione.

Un altro lavoro piuttosto interessante della sezione Ici & Ailleurs, è quello diretto da Massimo D’anolfi e Martina Parenti, intitolato Grandi speranze. Si parla di lavoro, di imprenditoria, si seguono tre giovani italiani alle prese con la grande economia globalizzata e pianificata in ogni dettaglio. L’opera dei due registi, presenti qui a Locarno già due anni fa con il bel doc., I promessi sposi, è sempre venata da una sottile ed efficace ironia, ed anche stavolta riesce a condire il discorso complesso sulla più recente economia italiana, e su un mondo che tra i cinefili è sconosciuto molto piu’ che il cinema di Nagisa Oshima,  quello della macroeconomia e dei nuovi mercati internazionali.

Chiudiamo questo elenco di titoli italiani presenti nella sezione Ici & Ailleurs con il bel doppio lavoro di Roberta Torre: Tiburtino terzo, e La notte quando è morto Pasolini, due lavori di circa mezz’ora l’uno separati eppure uniti da un filo conduttore importante, quello legato alla figura del grande poeta, scrittore e regista di Casarsa. Nel primo lavoro la Torre torna, oggi, su quelli che Pasolini aveva definito ragazzi di vita, e cerca di capire cosa è rimasto di quel modo drammatico di essere e di vivere la vita. Analogie e differenze si mescolano, oggi c’è la tv e la cocaina a portata di mano, ed i giovani hanno maturato un’aggressività ed una determinazione al male ancor maggiore, nonchè una predisposizione culturale all’esibizione e alla messa in scena del proprio sé. Che però rimane drammatico e insostenibile, che fa ancora tenerezza e dolore insieme, che mostra una malattia capace di colpire interi quartieri, non più borgate in senso stretto ma agglomerati di cemento, che comunque fanno sviluppare un atteggiamento fisico e mentale molto simile a quello descritto da Pasolini. Si ride molto, con i sei sette soggetti che la Torre avvicina, ammorbidisce, coinvolge senza che questi ne capiscano bene fino in fondo il perché. Negli ultimi istanti del film la regista chiede loro cosa sanno, cosa ricordano di Pasolini. Qualcuno niente, qualcun altro qualcosa, espresso con parole che sembrano uscite da un testo teatrale comico. Poi c’è un attimo di nero, il silenzio, finché compare un ormai anziano Pino Pelosi. Sarà un intervista frontale di mezz’ora, in cui l’uomo racconterà una nuova versione dei fatti, con quel che gli rimane della sua vita e del suo passato torbido e desolante. Non è la novità che Pelosi porta, ciò che è importante, è il fatto che ancora oggi, dietro la morte di Pier Paolo Pasolini ci sia mistero, confusione, inaccettabile buio.

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