Una fiaba i cui giovanissimi protagonisti (ri)scoprono la figura e le opere del “pioniere” George Méliès; la caduta e la resurrezione di una stella del cinema nel delicato passaggio dal muto al sonoro. Curiosamente, i due film che più di tutti hanno fatto incetta di candidature all’Oscar (ben 11 per Hugo Cabret di Martin Scorsese, una in meno per The Artist di Michel Hazanavicius) rivolgono entrambi l’attenzione agli albori della settima arte. Riducendo le due storie al minimo comune denominatore, in entrambi i casi la formula è quella di un personaggio che rappresenta il “vecchio”, in passato all’apice del successo ma sconfitto dal tempo e dal progresso, che quando crede di non aver più nulla da dire riesce a vivere, con l’aiuto di chi è più giovane e una volta lo adorava, una seconda giovinezza.

Se identico è sostanzialmente il topos, nell’approccio alla narrazione i due registi sono invece agli antipodi: laddove Scorsese sceglie il 3D, l’ultima “diavoleria” moderna – finalmente al servizio di un autore e non soltanto funzionale agli effetti speciali – Hazanavicius utilizza il bianco e nero e, addirittura, ritorna alla primordiale tecnica del muto. Scorsese mette in scena un personaggio realmente esistito in un contesto immaginario, fantastico e poco credibile, Hazanavicius inventa i suoi attori e dà vita a una storia perfettamente verosimile. Ancora, il Méliès di Hugo Cabret, scottato dalla crisi (sono cambiati i gusti della gente, è scoppiata la Grande Guerra) vuole vivere nell’anonimato: la figliastra ignora di cosa sia stato capace in passato e i cimeli della sua carriera sono nascosti in uno scatolone. George Valentin, The Artist, non vuole invece arrendersi a un destino che pare segnato, cerca una rivincita da giocare “in casa”: quando tutti impazziscono per il sonoro continua con il muto e continua a fallire. Due diverse storie sul cinema, due diversi modi di fare meta-cinema. Scorsese sceglie di giocare continuamente con rimandi e citazioni, ricrea in modo spettacolare il teatro di posa di Méliès, inserisce qua e là spezzoni autentici delle sue pellicole. Il risultato è un’ottima introduzione alla storia del cinema, pensata per i più piccoli. Occorre infatti osservarla dalla prospettiva di un bambino perché risulti una storia candida e non ingenua, dickensiana e natalizia (stupisce per questo la scelta dell’uscita in Italia a inizio febbraio) anziché buonista e banale. Osservarla, appunto, con gli occhi di chi crede che un treno possa fuoriuscire dallo schermo, o che un buffo illusionista possa staccarsi la testa.

Hazanavicius, dal canto suo, compone una sorta di matrioska: racconta con un film muto la storia di un attore del cinema muto. E paradossalmente, al contrario di quanto si è molto detto e scritto, The Artist non può essere – né sembrare – un film girato esattamente come se fossimo negli anni Venti, proprio per il suo tema: il suo è piuttosto un cortocircuito logico, un film che racconta l’inizio di una nuova era, ma vuole porsi – al presente – alla fine di quella vecchia. Ci sono infatti almeno due sequenze in cui lo spettatore avverte un vero e proprio straniamento brechtiano: il sogno di Valentin, con i rumori di sottofondo sempre più forti e la scena finale, con l’applauso e le voci della troupe. Guardare un film del genere è come leggere un manoscritto che parli dell’invenzione di Gutenberg. Come utilizzare una cabina telefonica per inviare email. Anche questa storia, poi, rischia di essere banalmente stucchevole, e in questo caso non si riesce a capire da quale prospettiva osservarla.

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