di Stefano Maschietti/Quanta verità può sopportare, se la verità emerge da sofferenze sepolte e rimosse, la riconciliante ricostruzione di un paese? Un paese non rinasce dal suo anno zero, come ama sognare il patriottismo resistenziale, ma si ricostruisce sulle stesse impalcature amministrative e sulla rete di burocrati al servizio del regime crivellato, ma non polverizzato, dalla guerra e dalla storia. È il caso in Italia dell’amnistia togliattiana del 1947, ma lo fu anche nell’Armata Rossa degli anni ’20, da Trotztkij innervata con riconvertiti generali zaristi.

Nella Francoforte fine anni ’50 Fritz Bauer è l’inquisitore di tante canaglie naziste ora al servizio dell’amministrazione Adenauer. Gli anni del miracolo economico allineato al fronte antisovietico impongono però l’abnegante ottimismo di benpensanti interessati alla sola criminologia da buoncostume. Gli invertiti sono più pericolosi degli ex-gerarchi, questo richiede il conformismo del momento. E mal tollerate riescono le inquietudini storico-giudiziarie dell’ebreo Bauer, figlio di un mutilato patriota del Weltkireg guglielmino, già socialdemocratico a Weimar, poi esule in Danimarca, e ora incapace di (s)terminare la sofferenza di aver, con una lettera di asservimento al fu regime nazista, scampato il campo di concentramento che toccò invece a compagni più irriducibili di lui come Kurt Schumacher.

Una lettera di genuflessione è quindi stata, nell’armadio dei propri scheletri, più infamante delle personali frequentazioni omosessuali, ma proprio un’imprevista lettera dall’Argentina, di tutt’altro tenore, mette d’improvviso l’affaticato Bauer sulle tracce dello Pseudo-Eichmann. Il procuratore capo indaga isolato, sotto gli occhi vigili della weberiana gabbia d’acciaio i suoi dossier tanto pedinano quanto sono pedinati, esfiltrati, neutralizzati. E proprio perché, come nella Primavera hitleriana di Montale, qui “nessuno è incolpevole”, a pochi in Germania interessa l’eccezione spettrale della memoria di Bauer: le seconde linee della filiera amministrativa che portò ad Auschwitz sono per lo più al servizio (segreto) della ragion di stato, e scarsa copertura politica o televisiva è sperabile, al di là di ipocrite adesioni di facciata, per la caccia al gerarca di turno e amico degli amici, tutti scattanti a lordare con dossier killer quanti, è il caso del sostituto procuratore Karl Angermann (Ronald Zehrfeld), osino toccare il filo incandescente delle complicità che porta fino ai vertici della politica estera della RFT.

Se la memoria è debole “fil di ragno” ma unica patria della sofferenza, il patriottismo imprescrittibile al giusto impone l’alto tradimento del servizio di stato. Al quale urge la conciliazione “democratica” opportuna contro il nemico sovietico, mentre il demoniaco persecutore della memoria democratica tarla l’umiliante e soffocante compromesso con sé stessi e spinge Bauer ai margini incoffessabili dell’illecito. La gabbia di acciaio della giurisprudenza incapace di sdegno è forse per Bauer, e per gli sceneggiatori di questo Bau-film, come il toro di Falaride citato da Kant: il labirinto tecnico nelle sue interiora avrà pure trasformato le urla dei torturati in dolci melodie, e in incenso il fumo infuocato nel loro sangue, ma il suo progettista aveva presentito, da tecnico servizievole e unico custode del segreto, che sarebbe stata l’ovvia e anonima prima vittima della sua spietata macchinazione contro il dissenso?

Lungo tutto il film, rianimato da ritmi e sincopi Jazz, osserviamo Bauer barcollare fumante come un toro perplesso, respinto persino da chi, l’ufficiale del Mossad nel deserto israeliano, gli rimprovera il tedesco rispondendogli in yiddish, ma per sussulto di sdegno capace di violare un derivato ottuso dell’imperativo kantiano, quello che imporrebbe, specie al funzionario, di non mentire, per nessuna ragione. Sono infatti il gioco a rimpiattino con grigi mercenari delle informazioni riservate e gli arditi imboccamenti con il Mossad a imbastire l’illecita trama della Ragion di diritto dell’alto traditore, che però nulla avrà potuto contro la gommosa Ragion di stato del patriarca timoniere: Eichmann non finirà alla sbarra in Germania, a chiamare in correo gli amici ora incapaci di coprirlo; lo scambio realpolitico tra Adenauer e Ben Gurion, ammette il Governatore dell’Assia che pur ha voluto Bauer a capo della procura, prevede armi tedesche ad Israele e quindi l’esplosivo processo Eichmann altrettanto distratto e dirottato a Gerusalemme (1962).

Grazie alle ricerche storiche di Olivier Guez, sceneggiatore insieme al regista Lars Kraume di un film dal thrilling adeguatamente temperato dall’esigenza riscostruttiva, in Lo stato contro Fritz Bauer (come reincarnatosi nell’interpretazione di Burghart Klaußner e già al centro, oltre che dedicatario, del Labirinto del silenzio) scopriamo i giusti che avrebbero ispirato l’inginocchiamento di Willy Brandt a Varsavia (1974). Cosa resta della loro Europa? Quando il Web, pochi giorni fa, ha strillato con i soliti anodini clamori il prezzo battuto all’asta per la conturbante scultura di Cattelan intitolata Him (2001), quanti hanno riconosciuto nello Hitler compostamente inginocchiato una sofferta parodia del gesto europeo e ost-politico di Brandt? Ci sarà un domani per folli della normalità e malati di memoria come il giudice Fritz Bauer? La poca memoria che resta saprà sopportare (sub-ferre, soffrire) il peso e lo spettro di una verità a venire, di “un’altra sponda da additare”? O è “sempre più tardi” in questa “primavera inerte, senza memoria”, dove “stremati” i compatrioti di Dora Markus “resistono in un lago di indifferenza”?

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