C’e un tipo di cinema che quando deve raccontare la stretta attualità della realtà in cui viviamo, quella a cui i mezzi di comunicazione di massa danno delle etichette per farci credere che nulla ci tocca e ci riguarda veramente e che tutto può essere definito o incasellato da parole disconnesse dal loro significato più profondo e problematico, è convito di doversi far sentire con la forza, di poter arrivare solo attraverso la provocazione, il cazzotto nello stomaco, lo shock dell’immagine ad effetto o del colpo di scena drammaturgico.

Il cinema di Vittorio Moroni non ha mai scelto l’urlo, il ringhio rabbioso per comunicare la sommessa indignazione e il meraviglioso stupore con cui i suoi personaggi si alternano nel loro sentire e percepire la vita che gli appartiene interiormente e che li circonda esteriormente. Lo scivolare dalla dimensione del “documentare” una precisa, contingente situazione sociale e culturale allo scrutamento intimistico delle zone di luce ed ombra degli esseri umani è un movimento aereo, sussurrato, uno iato di vite e di Vitaprima di riportarci su questa terra in tutto il nostro peso specifico di corpi lividi e (pro)tesi.

Il corpo di Kiko, il vibrante, emozionante protagonista di Se chiudo gli occhi, non sono più qui sembra voler raccontare il possibile ma anche l’impossibile, si stende in una contratta e contraddittoria aperturachiusura nei confronti della sua età di adolescente che vorrebbe socraticamente conoscere e conoscersi e al tempo stesso obbligato a mutilare e a reprimere questo suo natura slancio dagli schiaffi che gli ha riservato il destino: un padre italiano biologico morto troppo presto e celebrato in una sorta di santuario laico dove l’aspetto religioso, nella sua accezione di ricerca dell’infinito e di un’ origine dell’umanità è sostituito dall’amore per l’ astronomia, per l’osservazione del cielo stellato e dei fenomeni che regolano l’universo e il movimento degli astri,l’eredità mitica ed ancestrale lasciatagli dal genitore paterno.

C’è poi la madre filippina, l’unica presenza emotivamente significativa nel microcosmo di Kiko, portatrice di un passato di sradicamento da una cultura di provenienza e di ripensamento all’interno di un contesto sociale ostile, aspro, fatto di precoci disillusioni dove le belle speranze sono state seppellite dai calcinacci e dalla polvere del lavoro in nero e dove la stessa bellezza della donna appare sbiadita, offesa, avvilita. La violenza o il preludio ad essa è continuamente presente nella figura di Ennio, il nuovo compagno della madre di Kiko, che, come in una tragedia shakespiriana o in un mito greco riletto dall’Akira Kurosowa di Dodes’ka-den, ha usurpato il letto, il regno (un bar-stazione di servizio abbandonato) e il ruolo di guida del padre di Kiko, contrapponendo, potremmo dire simbolicamente, all’astrazione verso il cielo e le stelle, la terrena pesantezza del lavoro di manovalanza con un pugno di disperati operai clandestini.

Ma Kiko vuole anche l’impossibile e si attacca con tenacia all’idea di poter studiare la filosofia, il latino, la matematica. Siamo sospesi con lui tra questi mondi paralleli, queste prescritte realtà (la mitologia luminosa della figura paterna, la soffocante, notturna realtà della dimensione familiare, l’opportunità sfuggente della Scuola come luogo di cultura, educazione e scoperta dell’altro diverso e uguale), cercando di avvinarci a lui, di toccarlo, attraverso l’ascolto dei suoi monologhi, un miscuglio straniante e misterioso di poesia e riflessioni sull’universo che ricordano in una chiave più lirica  i “mantra” della Rosetta dei fratelli Dardenne, la quale riusciva ad immaginarsi però solo in una scarna cornice di sopravvivenza (“Non affonderò nel buco nero“).

A un certo punto del racconto, come invocato dall’inconscio, una sorta di alieno che viene da un universo parallelo e tanto simile al nostro, o da una passato paterno che Kiko si è potuto solo immaginare, entra in scena il personaggio di Ettore che appare nelle vesti di maestro socratico in un mondo dove il Padre  sembra potersi ridurre solo a mitizzato ricordo oppure a violenta usurpazione. Chi è Ettore? Si presenta come amico e mentore del padre di Kiko e compensa in maniera perfettamente speculare la brutalità di Ennio. Gli insegna non il nozionismo fine a se stesso che le insegnanti sembrano richiedergli per prestazioni di voto e pagella, ma la ben più rara maieutica, l’arte di scoprire dentro di sé e tirare fuori l’amore incondizionato per il sapere, qualcosa di non acquistabile e di non trattabile (“Nessuno fa niente per niente,” gli dice sopettoso e guardingo Kiko di fronte all’inaspettato regalo di un pc da parte di Ettore).

Ma Vittorio Moroni non offre facili soluzioni o specularità narrative così didascaliche tra personaggi e situazioni, e ammanta anche questa relazione di una complessità che tocca tutti gli aspetti della relazione con un pudore pari all’intensità, senza escludere le implicazioni di un’attrazione, di una naturale pulsione (un po’ come faceva Francesca Archibugi con Sergio Castellitto neuropsichiatra infantile e Alessia Fugardi sua piccola paziente ne Il grande cocomero). “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo” recita la frase di Terenzio attraverso cui Ettore offre una nuova chiave di lettura a Kiko per rapportarsi al mondo che lo circonda (interiormente ed esteriormente).

E Moroni va oltre, facendo di questo assunto filosofico non solo un canale della relazione tra i due personaggi, ma la natura stessa del suo film che non ci accompagna su percorsi rassicuranti fino alla possibilità tanto agognata di un riscatto, ma si lascia invadere da tutte le deviazioni e gli sbandamenti, lasciandoci sentire lo stordimento di Kiko di fronte a quell’uomo dolcissimo e premuroso eppure misterioso e distante che ha saputo trasmettergli il brivido di una vita altra ma che porterà con sé anche la disillusione dell’ultimo inganno. Una pacata, silenziosa amarezza in cui avvertiamo quanto tutto questo ci appartenga e quanto possa diventare breve per un istante la distanza tra l’assoluto dell’universo stellato, i nostri piccoli, umanissimi desideri e i bruschi risvegli nel passaggio un po’ sogno un po’ incubo tra un’età e l’altra della vita.

Infine il cinema di Vittorio Moroni si è fatto l’arte di colpire al cuore.

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One thought on “SE CHIUDO GLI OCCHI, NON SONO PIU’ QUI – i colpi al cuore

  1. bellissimo pezzo. e penso anch’io che il film sia attraversato dalle categorie che suggerisci tu: il mito, la psicologia, la storia e la relazione come possibilità di trasformazione (elenco non tassativo!)

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