Premessa:  Non  ho letto La versione di Barney, il best seller dello scrittore canadese Mordecai Richler da cui, soprattutto per l’impegno e la dedizione del produttore Robert Lantos è stata tratta questa versione cinematografica. Per questo motivo non mi sono posto davanti al film di Rcihard C.Lewis con quel sentimento di aspettativa e curiosità che inevitabilmente porta ad un confronto tra le suggestioni visive private, intime, esclusive suscitate dall’immaginazione rispetto alla parola scritta, e la trasposizione elaborata da un’immaginazione appartenente a qualcun altro, con il rischio inevitabile di sentirsi delusi e traditi. Non avevo quindi una mia idea precostituita di come questa storia potesse essere raccontata per immagini e di conseguenza non c’era un mondo personale di riferimento da dover difendere da qualche eventuale profanazione, quel legame di sacralità che si crea con un romanzo particolarmente amato e celebrato. Non sapevo molto neanche dello scrittore canadese ebreo se non qualche impressione a sprazzi sui suoi piccoli eroi del quotidiano, spesso e volentieri ebrei e canadesi anche loro, ma al di là della nazionalità e del credo religioso figli di tutti i vizi e le virtù della natura umana, in particolare quella maschile.

Così Il Barney Panofsky del titolo mi si è materializzato sotto le spoglie rotondeggianti e barbute di Paul Giamatti, attore votato per phisique du role e sensibilità interpretativa a centrare questi personaggi in bilico tra il buffo e il tenero, tra il morso del grottesco amaro e la carezza del patetico auto-indulgente che in virtù di una spiccata simpatia giustifica e stigmatizza ogni difetto e ogni comportamento, e traduce il personaggio del loser dentro la chiave di lettura di un vincente, a cui ci si affeziona e si vuole bene; si soffre e si combatte con lui e alla fine si piange per lui, con una celebrazione non diversa da quella che si riserverebbe all’eroe tutto d’un pezzo sia fisicamente che moralmente.

Così il lungo flash back attraverso il quale l’omino barbuto ripercorre gli episodi salienti della sua vita sentimentale è costruito in modo tale da alternare momenti di comicità sbracata e gaudente con soprassalti drammatici, come nel primo matrimonio ambientato in una cartolinesca e pacchiana Roma, circondanto da amici bohemiens e da una svampita sposa di facili costumi, alla quale l’improbabile proposta di una vita coniugale viene fatta a causa di una gravidanza indesiderata di cui, come nelle migliori pochade, il responsabile non è Barney. Ma il clima scherzoso e goliardico è subito spezzato dalla presenza della morte, quella naturale del bambino e il suicidio della moglie, che nascondeva la solita incolmabile infelicità dietro un’apparente frivolezza. Un inizio che dà il passo al ritmo del racconto, con Barney travolto dalle circostanze di una vita nella quale il corpo scattoso e il faccione da cagnolone bastonato di Giamatti si muovono come un irrequieto pesce fuor d’acqua, imprigionato nell’acquario delle immagini levigate e rassicuranti di Richard C.Lewis, che fanno letteralmente a cazzotti con la carica eversiva e provocatoria intuibile nel personaggio, nelle sue potenzialità. Alla stessa maniera viene infatti liquidato il secondo matrimonio con una ricca figlia della borghesia ebrea, che sembra una versione ripulita e addomesticata della sguaita prostituta dell’ultimo Woody Allen e di cui ci liberiamo in fretta perché si macchia del gesto più odisoso che rende ancora più amabile il nostro Barney: lo tradisce con il suo migliore amico peraltro scrittore fallito e drogato a cui il solo Barney sembra dare credito, fiducia ed accoglienza, in cambio della scoperta del mondo “nobile” della grande letteratura, che però resta soltanto uno dei tanti spunti non approfonditi o ridotti ad una singola sola sequenza prima di imboccare la prestabilita direzione maestra.

Arriviamo finalmente al terzo, definitivo matrimonio con la donna della “sua vita” che Barney aveva incontrato durante la celebrazione del precedente accidentale sposalizio e che sembra essere la naturale destinazione della vita di Barney, dell’andamento del racconto e dell’orizzonte estetico del regista.

A  questo punto ogni possibilità e potenzialità di situazione grottesca o eversiva che si poteva leggere tra le righe della performance di Giamatti viene azzerata da una sorta di idillio sentimental-casalingo, concettualmente non dissimile dalla vita alternativa che Scorsese immaginava per il suo Gesù Cristo rispetto al finale sulla Croce, con la nuova moglie che è un concentrato di tutte le virtù delle donne delle soap opera, madre esemplare e sposa fedele che porta il vizioso Barney sulla via della rettitudine, non capendo, forse, che questa appariva più come una minaccia che come una speranza. Per questo ho avuto un soprassalto di soddisfazione quando Barney abbandona l’Eden a cui è approdato e torna alla sua natura gaudente e viscerale, divorato dalla gelosia per la sua donna la quale per non farsi mancare nulla, dopo aver mandato  i figli al college, diventa pure una stimata speaker radiofonica, da super-casalinga a super-donna in carriera, e flirta con il suo elegante e fascinoso capo. Ma è un soprassalto che non coglie la piatta regia e neppure la narrazione che condanna Barney e le tentazioni della carne (la scopatina randagia per ripicca più che per piacere) alla pena del melodramma strappalacrime senza scampo: la moglie, insensibile ad ogni umana imperfezione, lo abbandona immediatamente, il figlio lo umilia (“Lei valeva più di te ma ti è rimasta vicino”), ma lo smacco più grande è l’essere privato lentamente e inesorabilmente della memoria da un precoce morbo di Alzheimer che rende la rievocazione dei fatti una versione parziale e incompleta, dov’è possibile che la fantasia abbia sopperito alla memoria. Il finale è un tripudio di sviolinate nella colonna sonora e di scene madri in cui Giamatti può fare il grande attore, con la moglie che torna e che quando gli dice “Ora possiamo essere amici” fa sperare in un Barney che la mandi a quel paese e vada a farsi un’altra scopatina randagia… Invece tutto si conclude in maniera dignitosa e commovente e manda a casa lo spettatore tra un risata e una lacrimuccia.

Ora l’impressione che mi sono fatto partendo da questo film della scrittura di Richler è abbastanza noiosa, pedante, consolatoria, venata da un moralismo di fondo vagamente irritante. Ma voglio credere invece che l’essenza e lo spirito dello scrittore canadese stia in una delle poche scene sanamente libere e gaudenti di questo inamidato adattamento: papà Dustin Hoffman che dopo l’ultima avventura in un bordello muore con il sorriso sulle labbra e il figlio che dopo il pianto di circostanza esplode in un’incontenibile, sguaiata risata. Una libertà che la schematica regia non si concede, a prescindere da quals
iasi confronto con il libro, perché il cinema, si sa, è altra cosa.

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