Sta per avvicinarsi San Valentino, la Fandango ci ha risparmiato l’uscita di Baciami ancora proprio in corrispondenza del 14 febbraio, ma è probabile che il ritorno di Muccino ci sottoponga lo stesso ad un nuovo e vorticoso giro di riflessioni sullo stato del cinema  mainstream italiano. Alla luce de La prima cosa bella, ci auguriamo che per una volta Virzi possa essere risparmiato dal rituale della foto di gruppo con i vari Verdone, Veronesi e Pieraccioni e che il suo lavoro possa finalmente essere considerato come un caso a parte nella nostra commedia popolare. Del resto se con il pessimo (Lombrosiano?) Io, loro e Lara, il regista di Viaggi di Nozze ha perso definitivamente pure il credito residuo che gli concedevamo in quanto vecchi romanisti, l’autore labronico, con la sua ultima prova, oltre ad averci completamente sedotto è un pò come se fosse riuscito a conferirci di colpo una sorta di cittadinanza automatica e sentimentale della sua affascinante Livorno. Se leggendo Colla di Irvine Welsh, infatti, è inevitabile sentirsi un pò padroni della corea di Edimburgo, allo stesso modo, La prima cosa bella è uno di quei film che ha avuto davvero il potere di suscitarci la nostalgia per dei vicoli e dei pomeriggi al sole che non abbiamo mai vissuto, legandoci intimamente a dei personaggi incredibilmente riusciti e convincenti e di cui la crescita seguita passo passo per oltre quarant’anni non può non coinvolgere e commuovere.

Si potrebbe anche impostare la recensione apprezzando la miriade di omaggi che Virzì rende alla sua idea di cinema (Dino Risi, Pietrangeli, Scola). Questa del resto pare essere una stagione cinematografica in cui molti registi sono sensibili al citazionismo a tutti i costi. Non basta però avere un’ottima cultura della settima arte per fare dei bei film e in questo senso il merito maggiore di questa produzione va individuato soprattutto nella ricostruzione di uno squilibrio familiare di cui non si rintracciano deterministicamente le cause, ma di cui si umanizzano amabilmente i silenzi, le discussioni e le contraddizioni. Mastrandrea poi era il protagonista perfetto per impersonare una profondissima emotività ermetica. Se in Tutti giù per terra lo avevamo amato per l’ostinazione solitaria e controversa con cui cercava un’approvazione sessuale e lavorativa nella società adulta, qui è come se il nostro riprendesse i fili di quell’interpretazione e rielaborasse quell’insoddisfazione esattamente tredici anni dopo, concependo – al contrario – solo una brama di fuga od ottendimento da quei ‘traguardi’ sociali che ha ormai raggiunto solo goffamente. La costruzione del personaggio poi giunge a pieno compimento anche grazie alla sorprendente continuità nei lineamenti e nella postura di tutti gli altri attori che danno vita a Bruno Michelucci nell’infanzia e nell’adolescenza.

Appena meno riuscito forse il continuum che congiunge la Ramazzotti alla Sandrelli. Se la prima, infatti, impersonando Anna da giovane esalta l’indecisione e la fragilità nel subire gli eventi e gli amanti, la protagonista de Io la conoscevo bene è semplicemente sublime nel modo in cui domina la propria passione e l’affetto dei suoi cari anche in punto di morte. Alcuni forse ancora non perdonano a Virzì il finale buonista e rassegnato di Ovosodo che forse è stato un po’ un antesignano di quell’esaltazione della normalità (vera rivoluzione?) che sarebbe dilagata da lì a poco nelle sale nostrane. La prima cosa bella però è davvero un’ottima cosa per fare pace con il suo cinema e con tutto il nostro recente passato.

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